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Il mercato del lavoro italiano è bloccato da un grave corto circuito economico produttivo.  Da un lato gli storici insediamenti del manifatturiero e industriali sono finiti in un vortice involutivo che evidenzia una progressiva erosione di quote di mercato, fatturati, imprese e lavoratori, di portata storica.  L’ultimo dato è quello del comparto degli elettrodomestici: negli ultimi 10 anni la produzione italiana dell’industria del Bianco è scesa da 30 milioni di pezzi a 15 milioni, si è dimezzata!  La produzione industriale è scesa per 19 mesi consecutivi e siamo a meno 5,2% su base annua. In Lombardia solo nel primo quadrimestre del 2013 hanno perso il lavoro 3.100 metalmeccanici e nel Mezzogiorno in 5 anni sono stati persi oltre 141 mila posti di lavoro nell’industria, secondo una recente elaborazione Svimez.

Mentre perdiamo posizioni nel manifatturiero e negli storici insediamenti industriali, non cresciamo e siamo pressoché fermi nei settori produttivi del futuro e con elevate potenzialità di crescita e sviluppo. Nel settore dell’industria e delle produzioni high tech e quella della nuova rivoluzione industriale rappresentata dalle nanotecnologie, siamo pericolosamente fermi al palo. Nella classifica mondiale dei brevetti siamo agli ultimi posti e abbiamo scarse politiche che permettano di trasferire le innovazioni scientifiche al campo industriale. Le nanotecnologie avranno un ruolo chiave per la crescita e la competitività di molti settori, come l’ICT, l’elettronica, il medicale, l’energia e l’ambiente, oltre ai settori della cosmetica, dell’alimentare e dei tessuti. Un documento della Commissione UE del 2012 ha previsto una crescita del settore delle nanotecnologie per un volume globale di 2 trilioni di euro entro il 2015. Questa occasione di sviluppo può essere colta investendo ingenti risorse “in infrastrutture di ricerca a carattere interdisciplinare” (A. Castagnoli), in formazione e manodopera specializzata  e attraverso la realizzazione di network strutturali di interscambio tra università, ricerca e industria.

Il nostro ritardo è riscontrabile in quasi tutti i settori produttivi a forte tasso di crescita e alto contenuto tecnologico e innovativo, come il comprato digitale in cui siamo importatori di software.

Se questo è il quadro com’è possibile pensare che si possa rilanciare l’occupazione con qualche incentivo alle assunzioni dei giovani e con la staffetta generazionale?  Il problema vero è che si è appaltato ai giuslavoristi la funzione di creare lavoro tramite alchimie legislative. Ma davvero qualcuno pensa che il lavoro si possa creare per legge?

Una legge sul lavoro può intervenire prevalentemente sulla qualità del lavoro e non sulla quantità. E’ lo sviluppo economico, la crescita delle aziende, il mercato, le imprese che creano occupazione e quindi è qui che bisogna intervenire.  Urge togliere la questione dell’occupazione dalle mani dei giuslavoristi per rimetterla in quelle degli esperti di sviluppo dell’economia, di politica industriale e di relazioni sindacali. Solo in questi ambiti è possibile risolvere il corto circuito che ci ha spenti.

Non a caso uno dei più efficaci strumenti degli ultimi anni per il rilancio delle produzioni è l’accodo sulla produttività del novembre scorso e esteso da poco alle aziende senza rappresentanze sindacali, che punta ad un aumento della competitività delle nostre imprese attraverso una nuova prassi nelle relazioni industriali che valorizza gli accordi aziendali e territoriali, anche in deroga ai contratti nazionali, sostenuto da significative risorse pubbliche. E qui, non c’è traccia di giuslavoristi.

Il cortocircuito del lavoro e l’illusione dei giuslavoristi

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