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Il mondo che siamo abituati a conoscere sta attraversando una congiuntura caratterizzata da profonde trasformazioni: trasformazioni che sono tanto naturali, come nel caso del cambiamento climatico, quanto politiche, con l’emergere di un sistema internazionale multipolare. Verso dove porta questo cambiamento? Gilles Gressani, direttore editoriale del Grand Continent, presidente del Groupes d’études géopolitiques dell’École e insegnante a Sciences Po, ha formulato alcune ipotesi dialogando con Formiche.net.

Come definirebbe l’attuale contesto storico-politico che stiamo attraversando in questo momento?

Viviamo in un interregno. Un ordine si è dislocato e assistiamo a una ricomposizione confusa, violenta e disorganizzata su scala planetaria. Alcune trasformazioni sono evidenti: la metamorfosi tecnologica e digitale, l’approfondimento della rivalità tellurica tra Cina e Stati Uniti, l’emergere di focolai attraverso l’intera superficie terrestre e in modo particolarmente impressionante attorno al continente europeo ormai chiaramente circondato da un arco di crisi che nella loro eterogeneità devono essere concepite in modo comune.

Un elemento inedito rende particolarmente difficile la lettura di questa fase. Non stanno cambiando solo le pedine e le regole del gioco — ma sta cambiando anche la scacchiera. La terra è diventata un vero e proprio attore geopolitico, non più soltanto il teatro dove si svolgono gli eventi ma un uno dei fattori di disordine. In questo il cambiamento climatico è un fattore da interpretare con gli occhiali del realismo politico.

Sul piano strettamente geopolitico, quali sono i fenomeni dominanti in questo riassestamento dell’ordine internazionale, almeno dal punto di vista di noi europei?

Il primo fenomeno ha una dimensione economica, sociale e finisce per sfociare sulla questione del riconoscimento. Branko Milanovic parla di una “grande convergenza”: con la mondializzazione, quelli che erano ricchi stanno diventando meno ricchi e quelli che erano più poveri stanno diventando meno poveri. Si tratta di una dinamica centrifuga per i sistemi occidentali fondati – soprattutto dopo la seconda guerra mondiale – su una classe media a cui si prometteva e si riusciva a dare una forma di abbondanza che permetteva di cementificare il sistema istituzionale democratico e politico, calmando le logiche egemoniche e imperiali. La maggior parte dei fenomeni politici più impressionanti a cui stiamo assistendo è probabilmente causato dalla rottura di questo meccanismo, che vedeva nella crescita e nel progresso una delle matrici-chiave dei nostri sistemi politici. Quello che resta è una frattura territoriale tra centri integrati e periferie arrabbiate, tra ineguaglianze e assenza di riconoscimento.

Il secondo fenomeno ha una dimensione più ambigua. Facendo un’analogia con la storia italiana direi che se la seconda parte del Novecento è stata il tempo dei grandi movimenti popolari, delle contestazioni – il tempo dei Comuni – nei nostri anni Venti assistiamo al ritorno del tempo delle Signorie. Il potere si concentra dalla piazza al palazzo, la sua gestione è affidata a tecniche sempre più sofisticate. Il ritorno di forme di potere westfaliano è però contraddittoriamente articolato alla concentrazione di potere nelle mani di tecno-oligarchi della Silicon Valley che ambiscono a ridefinire il modo stesso in cui l’essere umano viene concepito e definito. In questo il ruolo assunto dall’Arabia Saudita, un paese in cui il nome del sovrano coincide con quello dello Stato, è paradigmatico. In entrambi i casi la questione che si pone è quella della possibilità della politica. Con un paradosso inquietante: i mezzi del politico sembrano sempre più difficili per le democrazie.

Nel particolare, qual è l’impatto del conflitto in Ucraina sull’Unione Europea?

La guerra di Putin in Ucraina ha fatto due cose: una è unire l’Occidente, l’altra è disunire il mondo. Per l’Unione, almeno nella sua forma odierna, questo processo produce instabilità. Se la scelta è tra Occidente e il resto, è chiaro che l’Unione Euroepa sarà sempre meno rilevante della Nato. Come europei dobbiamo chiederci se possiamo limitarci a pensare sull’asse orizzontale che va da Washington a Pechino, passando per Kyiv, senza considerare l’asse verticale Sud-Nord e una delle principali sfide del nostro secolo: lo sviluppo dell’Africa. In questo sembra improbabile per l’Europa pensare al futuro, dimenticando il Mediterraneo.

Per l’Unione il 2024 sarà un anno elettorale. Le consultazioni europee potrebbero essere un punto di svolta?

Ci sono due risposte a questa domanda. La prima è che se oggi guardiamo i flussi elettorali non sembra che ci sarà un discostamento radicale, forse uno spostamento verso la destra, ma il baricentro politico dell’Unione Europea dovrebbe rimanere sostanzialmente invariato. A livello di policy i cambiamenti potrebbero essere più conseguenti, in particolare sulla questione del Green deal. Ma attenzione, le elezioni europee si terranno a giugno, mentre quelle americane si terranno a novembre. E questa quasi simultaneità è significativa. Milioni di elettori europei rischiano di essere appesi alla scelta di qualche centinaio di migliaia di elettori del Michigan per definire il futuro sui principali fronti che li riguardano. E questo per le dinamiche di una democrazia che ambisce a giocare un ruolo di guida è un rischio molto profondo.

Ma l’Europa non è solo composta dall’aspetto comunitario. Quanto contano oggi le relazioni bilaterali, in particolare nel triangolo Francia-Germania-Italia?

Il legame che c’è tra la Germania e la Francia anche in ottica comunitaria è un legame strutturante, difficile da comparare con altre relazioni bilaterali. Ma ad oggi questo legame sta vivendo un momento di difficoltà. Non che Parigi e Berlino abbiano sempre avuto interessi condivisi, sia chiaro. Diciamo che ad oggi la leadership tedesca sembra molto meno interessata a trovare dei compromessi con la controparte francese, per via della crisi strutturale di quattro dei suoi pilastri: dall’energia economica alla Cina “fabbrica” del mondo bisognosa di importare, dal basso costo del lavoro alla globalizzazione costante. Con il venire meno di queste caratteristiche, il modello merkeliano smette di funzionare. Con contraccolpi pesanti sul rapporto tra Parigi e Berlino. In questa situazione l’Italia potrebbe avere un ruolo molto più attivo, e il Trattato del Quirinale è un quadro che può permettere di promuovere un’azione molto più proattiva, su alcuni dossier fondamentali come quello del riorientamento geopolitico del progetto europeo attorno al Mediterraneo.

 

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