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Nel cercare di chiarire le vicende del termine ‘ riformismo ‘ si giunge alla conclusione che a tutti fa comodo di parlare poco di riformismo (e semmai in modo vago e ambiguo) visto che lo status quo non dispiace affatto a chi comanda.

Riformare è un’azione che presenta in ogni caso alcuni rischi non irrilevanti, in particolare quello di dispiacere a qualcuno. Nessun politico lo accetterà di buon grado, almeno se non sia di “lunghe vedute” o addirittura uno statista. Seguendo la linea dei precedenti interventi si vuol trovare almeno un minimo denominatore comune che possa consentire l’attualità del termine anche al quelle che potrebbero definirsi le del passato. Un passato che ha ancora molto da dirci se vogliamo ri programmare il paese.

Sul punto è intervenuto con cognizione di causa e con argomentazioni condivisibili Daniele Castelnuovo Economista e Analista Finanziario che ha ritenuto di trattare il quadro indagando le origini della programmazione economica in Italia.

Sostiene Castelnuovo che si possono identificare tre fattori principali:

A) La media del tasso di sviluppo del PIL sale fino al 6,3% negli anni ’58-’63, un livello mai ottenuto dall’Unità in poi. Raddoppiano anche gli investimenti in settori per la produzione di macchinari ed impianti industriali. La stessa produzione industriale raddoppia nel settore chimico e metalmeccanico, le commesse trainanti dello sviluppo industriale sono quelle per l’esportazione.

La lira guadagna l’Oscar delle monete nel 1960 da parte del Financial Times.

A questo punto si poneva il tema della creazione e dello sviluppo di un sistema di welfare adeguato alla nuova situazione del paese.

B) Sostanzialmente gli squilibri (alla fine degli anni 1950) si possono riassumere in tre grandi questioni: 1) un notevole aumento dei consumi privati di fronte ad una stasi di quelli pubblici (scuola, sanità, trasporti pubblici, ecc…); 2) squilibrio tra l’avanzamento di alcuni settori o attività economiche rispetto all’arretratezza congenita in altri, basti a titolo esemplificativo la perenne situazione di stagnazione produttiva e di reddito del settore agricolo nazionale; 3) incapacità di colmare il divario tra nord e sud.

Superare questi squilibri si imponeva con la stessa urgenza della crescita dei consumi interni e, anzi, ne era il presupposto. In effetti solo quando ai lavoratori fossero stati garantiti con alcuni benefici sociali, ci si sarebbe potuto attendere un ridimensionamento del tasso di risparmio e un adeguato aumento della propensione al consumo.

C) La situazione politica cambiava con la distensione internazionale a seguito dell’avvento al potere di Krusciov nell’URSS e di Kennedy negli USA e, anche, l’elevazione al Soglio Pontificio di Angelo Roncalli. Una battuta un po’ irriverente di quei tempi diceva: ‘Mater et magistra’ apertura a sinistra, madre e maestra, apertura a destra. La DC accettava la sfida di una alleanza, prima informale e poi istituzionale con il PSI e ne condivideva l’idea fondamentale, di introdurre la programmazione economica nazionale. Tuttavia per la DC essa avrebbe dovuto esser sostanzialmente indicativa, per il PSI invece vincolante.

Il punto di frizione e la svolta nel senso della perdita di importanza del riformismo è illustrata dalla creazione dell’ENEL.

L’Enel fu istituito dal Governo Fanfani IV, con la delibera della camera dei deputati del 27 novembre1962, diventata poi legge il 6 dicembre1962, su proposta dell’onorevole Aldo Moro, il quale accolse le richieste in tal senso del Partito Socialista Italiano. Tale legge prevedeva la nazionalizzazione delle aziende e delle imprese operanti nel settore della produzione, commercializzazione, distribuzione, trasporto di energia elettrica, nonché di tutte quelle operanti in settori funzionalmente e tecnicamente connessi. I socialisti, in particolare su spinta di Riccardo Lombardi condizionarono il loro sostegno al governo proprio alla nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Sull’indennizzo alle società elettriche vinsero le posizioni di Guido Carli. Si ricorderà che Carli sarà presidente di Confindustria dal 1976 al 1980 e poi senatore come indipendente della Democrazia Cristiana nel 1983 e nel 1987, anche se non sarà rieletto nel 1992.

L’allora governatore della Banca d’Italia era favorevole all’indennizzo immediato. La posizione di Riccardo Lombardi chiedeva invece la dilazione in quattro anni dei pagamenti, da garantirsi con obbligazioni. Per ottenere l’adozione del suo piano, Carli minacciò le dimissioni, che avrebbero gettato il Paese nel caos a causa del gravissimo attentato alla credibilità del sistema politico-economico che un simile atto avrebbe rappresentato in ottica anche internazionale.

Questa controversia tra Lombardi e Carli è stata, in un certo senso, alla origine delle due diverse, e addirittura opposte, idee di riformismo nell’Italia contemporanea. Il tentativo e la necessità di tenerle insieme, soprattutto per motivi elettorali, spiega probabilmente il ‘compromesso politico ’ al ribasso in senso ideologico e al rialzo del debito pubblico.

In effetti, il PSI almeno fino alla segreteria Craxi avanzerà richieste di sempre più incisive ‘riforme di struttura’, anche se, dopo lo Statuto dei Lavoratori (1970) e il SSN (1978), diventeranno sempre meno ben delineate in obiettivi concreti. Spesso si tratterà di slogan elettorali e strumento di contrapposizione politica e lotta di potere. Un ritorno ad una programmazione economica più rigida non sarà più invocata nemmeno dalla ala ‘lombardiana’ dopo la scomparsa del suo leader (di fatto ritiratosi dopo l’elezione di Craxi nel 1976 e poi morto nel 1984). Invece quella parte governativa della DC rappresentata da Carli diventerà sempre più la paladina dello slogan ‘liberare l’economia dai lacci e lacciuoli’ imposti dallo Stato. Eppure neanche la DC e nemmeno lo stesso Carli possono essere considerati come conservatori o reazionari. Valga il ricordo dello stesso grande banchiere e statista che ricorda come, in un colloquio privato, Papa Montini (amico e conterraneo in odore di non antipatia per la sinistra) gli disse: ‘E tu non fare il comunista il con me’.

Una sintesi tra le due idee di riformismo fu poi trovata in una progressiva accettazione che le decisioni degli imprenditori privati dovevano essere incoraggiate e stimolate dallo Stato anche del punto di vista economico e finanziario, in ‘cambio’ di sostegno politico e benevola e tacita accettazione delle sue direttive. Così lo Stato avrebbe ‘regolato’ l’economia e le imprese sarebbero comunque state ‘libere’ di decidere del loro destino. Di fatto si stava creando una ‘logica consociativa’ di do ut des e ad personam che dura fino ad oggi.

A partire dall’epoca di Craxi si dimenticheranno le etichette ideologiche e questo ‘scambio’ si estenderà in modo sempre più ampio con un effetto di moltiplicazione del debito pubblico. I diversi significati ideali del termine ‘riformismo’ saranno concordemente abbandonati in nome di una tacita adesione alla forma di ‘compromesso politico economico’. A fronte di una ‘licitazione privata’ di scambi e dazioni tra Stato e imprese, il primo rinuncerà sempre di più a stabilire limiti e regole generali ma continuerà a finanziare l’economia con il principio del caso per caso; e le seconde si adegueranno a sostenere e anche a finanziare i loro benefattori.

Disfare quanto è stato fatto e ritornare a un confronto delle idee di riformismo apparirà così sempre più difficile sia per il groviglio di interessi creatosi sia per la pigrizia e la scomodità pratica (soprattutto elettorale) di ritornare ad una contrapposizione ideologica. Invece sembrerà più semplice tagliare ‘linearmente’ ogni settore della spesa pubblica. A fare le spese di questa riduzione proporzionale delle erogazioni del settore pubblico saranno i cittadini, le imprese e gli enti, senza distinzione e discriminazione di bisogno e merito. In questo senso i governi di emergenza e di servizio sono la versione depressiva e rinunciataria della ‘grandeur’ consociativa e sperperatrice dell’epoca di Craxi.

Infine, con gli effetti della crisi del 2008 sembra tramontare anche la fortuna della proposta riformista in senso liberista come dimostrato in Italia dal disastro della proposta di Monti, che potrebbe essere definito a tutti gli effetti ‘l’ultimo dei carliani’.

Questa dettagliata riflessione di Daniele Castenuovo riesce ad alimentare ulteriormente il dibattito per questa sorta di chiamata all’appello di chi considera il Riformismo una cosa seria e non una parola sterile per riempirsi la bocca e far finta di saperne storia e significati: lanci di bottiglie nel mare con messaggi chiarissimi.

Siamo diventati un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori e… di pochi riformisti ecco perché bisogna riconoscerci e fornire spunti per un futuro migliore. Ruffolo sostiene che il rischio di essere utopici è sempre dietro l’angolo. Ma pensando al livello di Lombardi, di Sylos Labini, di Caffè e guardando all’attualità delle loro parole a noi non ci rimane che rendere loro omaggio nel modo migliore. Ovvero attuando il loro pensiero in tempi di totale smarrimento.

Alle origini della programmazione economica in Italia

Nel cercare di chiarire le vicende del termine ' riformismo ' si giunge alla conclusione che a tutti fa comodo di parlare poco di riformismo (e semmai in modo vago e ambiguo) visto che lo status quo non dispiace affatto a chi comanda. Riformare è un'azione che presenta in ogni caso alcuni rischi non irrilevanti, in particolare quello di dispiacere…

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