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La Cina paga a caro prezzo la crescita del Pil, con una vita più breve e con un’aria più inquinata. Industrie ed emissioni vanno di pari passo, e noi – come dire – ne sappiamo qualcosa (vedi l’Ilva di Taranto), ma non c’è stato modo fin’ora di collegare smog e cattiva qualità dell’aria con le patologie, in maniera diretta, per via della mancanza di un monitoraggio sanitario.

Lo studio sull’inquinamento
Ora, però, uno studio pubblicato dalla National academy of Sciences ha fatto emergere risultati “drammatici”. In particolare, a causa di alcuni determinati usi che si facevano del carbone, in Cina tra il 1981 e il 2000, l’inquinamento era di cinque volte peggiore di quanto non fosse negli Stati Uniti. Nel nord del Paese, oltre il fiume Huai, l’inquinamento da polveri sottili, smog ed emissioni di carbonio era del 55% più elevato; qui, gli abitanti avevano una speranza di vita 5,5 anni più breve rispetto ai loro vicini meridionali, e le cause delle morti sono soprattutto – secondo lo studio – per malattie cardiorespiratorie.

“Per tutti è sgradevole vivere in un luogo inquinato – ha detto Michael Greenstone del Mit – Ma oltre a pensare a quali sono i costi sanitari sarebbe molto importante cercare politiche equilibrate per una crescita sostenibile”. Anche, perché, per tutta la decade degli anni ‘2000 l’inquinamento da polveri sottili è rimasto più elevato, di circa il 26%, nell’area a nord della Huai.

I protocolli sul clima
Ora, alla base del ‘binomio-contraddizione’ crescita economica e qualità della vita, occorre fare un’analisi legata ai protocolli sul clima. Da un lato viene chiesto alla Cina di tagliare le proprie emissioni; questo significa ridurre la propria capacità produttiva o investire in adeguamento tecnologico. Ma soprattutto vuol dire rallentare la crescita. La Cina non ci sta, per un motivo in particolare: e cioè che tutto il mondo occidentale è cresciuto fin’ora non tenendo conto del riscaldamento globale, e questo ha fatto acquisire quello che viene definito come un “vantaggio sleale”. La maggior parte dei Paesi Sviluppati, Usa in testa, hanno creato economie che per arrivare dove si trovano hanno inquinato molto. Soltanto adesso che si chiede di controllare le emissioni e puntare sulle energie rinnovabili, i Paesi emergenti e quelli in Via di Sviluppo non intendono – almeno non facilmente – scendere a compromessi; tant’è che l’accordo globale sul clima, in sede di negoziati internazionali nell’ambito delle Nazioni Unite, non è riuscito a trovare uno sbocco proprio a causa dei veti incrociati dei due giganti: ma ora Stati Uniti e Cina dovranno riassemblare i pezzi e trovare un’intesa; l’accordo globale ha infatti una data di scadenza, il 2015.

La sfida della Cina
Cambiamenti climatici o no, lo studio calcola che con 500 milioni di persone che vivono nel nord della Cina, negli anni ’90 si siano persi circa 2,5 miliardi di anni di vita a causa di una politica energetica troppo legata al carbone. Questo dovrebbe spingere la Repubblica popolare asiatica a superare i confini della crescita economica tout court: industrializzazione legata alla qualità ambientale, scelte energetiche più pulite, tecnologie innovative. La sfida della Cina sicuramente è impegnativa, tenendo in considerazione come si sono evolute le altre nazioni occidentali, però può essere un modello da seguire sia per capacità lavorative che per progetti di cooperazione internazionale.

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