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Pubblichiamo un articolo del dossier “Iran: elezioni sotto tutela” dell’Ispi

Difficile farsi un’idea di cosa stia veramente succedendo in questa strana campagna elettorale iraniana, probabilmente la più grigia nella storia della Repubblica islamica dell’Iran. Sembrano ormai lontanissimi i tempi in cui i candidati alla presidenza giocavano (quasi) armi alla pari per convincere gli elettori, dato che l’Iran è stato a lungo uno dei pochissimi paesi del Medio Oriente in cui il regime si limitava a interferire nelle selezioni dei candidati, ma non manipolava i voti popolari. Dopo gli otto disastrosi anni di Ahmadinejad – e dopo la brutale repressione del 2009, allorché gli iraniani scesero in piazza per protestare palesemente contro gli evidenti brogli elettorali – queste elezioni ormai non appassionano più di tanto, né a livello internazionale né all’interno dello stesso paese.

Eliminato di fatto il movimento riformista, i cui candidati non hanno passato il vaglio del Consiglio dei Guardiani – tranne lo scialbo Mohammad Reza Aref, che ha poi rinunciato alla competizione elettorale – e i cui leader sono stati imprigionati, minacciati e silenziati, impedita la partecipazione di una vecchia volpe come Akbar Hashemi Rafsanjani e dell’ultraradicale preferito da Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei, quel che rimane sono sei candidati molto simili che fanno parte del variegato fronte dei conservatori tradizionali (i cosiddetti principalisti, usulgharayan) o degli ultra-radicali; molti provengono dalle fila dei pasdaran, il cui potere politico e militare è cresciuto in modo abnorme nell’ultimo decennio. Tutti – nessuno escluso – sembrano incapaci di opporsi ai voleri e agli errori del rahbar, ayatollah ‘Ali Khamenei.

Questi sembra aver scelto la via peggiore: non volendo correre nessun rischio di contestazioni, né di elezioni di candidati a lui sgraditi, ha deciso per una manipolazione pesantissima della campagna elettorale. Come detto da un amareggiato Mohammad Khatami, il candidato moderato Aref (allora ancora in lizza) e Hassan Rouhani (l’unico religioso) “prenderanno i voti che il sistema deciderà possano prendere”. In queste condizioni, milioni di iraniani pensano sia inutile andare a votare. Ma anche l’astensione verrà manipolata: visto il controllo ferreo sulle informazioni e su tutti i tipi di media, non v’è dubbio che il regime altererà i dati dell’affluenza alle urne.

Quanto sembra avvenire in questi giorni è la consueta fase di trattative sottobanco fra i candidati e i gruppi di pressione che li sostengono: come prassi in Iran, si stringono accordi, si accettano passi indietro in cambio di inclusioni in futuri governi, si cercano di sondare gli umori del rahbar e dei pasdaran. Paradossalmente, proprio l’estromissione di moderati e riformisti e il gran numero di candidati conservatori sembra complicare il quadro. I vertici delle Guardie rivoluzionarie sembrano molto divisi: l’ala più militare – e considerata meno “corrotta” dal potere – sembra appoggiare l’attuale sindaco di Teheran, il loro ex comandante Mohammad Baqer Qalibaf, considerato un buon amministratore e moderatosi ideologicamente negli anni. L’ala più vicina ai religiosi ultra-radicali o maggiormente coinvolta nell’occupazione sistematica di potere e nello scandaloso arricchimento delle loro società-paravento sembra propendere per il negoziatore nucleare Saeed Jalili (fedelissimo di Khamenei ma molto gradito anche ad Ahmadinejad).

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Riccardo Redaelli è professore associato di Geopolitica e di Storia e istituzioni del mondo musulmano presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano.

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