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Se ci si volge a considerare il ruolo dei cattolici nella storia italiana, almeno dalla nascita dello Stato unitario fino ad oggi, non si può non notare che in nessuna circostanza essi rifiutarono il loro contributo alla costruzione della vita buona della società. Anche nelle articolate e difficili vicende che seguirono l’unificazione, segnata dalla questione romana e dalla non partecipazione diretta dei cattolici alla vita istituzionale del Paese, in nessun caso la loro azione si tradusse in un ripiegamento nella dimensione privata dell’esistenza. Anzi, proprio in quel contesto si sviluppò il fecondo magistero sociale della Chiesa, che, mutate le condizioni politiche del Paese, trovò poi un interprete d’eccezione in Luigi Sturzo. […].

Dopo l’89, quando l’ebbrezza per l’imprevista caduta dei Muri fece addirittura parlare di “fine della storia”, si rende forse più chiaro che il cammino dell’uomo nell’articolato percorso che va dalla modernità al post-moderno documenta il progressivo distacco da ogni visione trascendente della vita, e ancor più da ogni sorta di legame ed appartenenza forte, soprattutto se di carattere ecclesiale. L’esito di questo processo, che non è stato interrotto dal crollo delle utopie imperniate sulla pretesa di un carattere assoluto della storia (vedi gli “ismi” del secolo breve), è suggestivamente racchiuso dal grido con cui Nietzsche, nel confutare le pretese dell’universalismo kantiano, rivendica per l’uomo l’ingresso in una nuova dimensione svincolata da qualsiasi riferimento veritativo: “Noi vogliamo diventare – scrive l’amaro e geniale profeta del post-moderno (“di me si parlerà nel Duemila”, aveva osato affermare ai primi del ‘900) − quello che siamo: i nuovi, gli irripetibili, gli inconfutabili, i legislatori di noi-stessi, quelli che si danno da sé la legge, che si creano da sé”.

Ovviamente non è certo la tesi di Nietzsche a determinare direttamente il pensiero e l’azione dei popoli e soprattutto dei singoli, sicuramente però dice un clima in cui oggi l’uomo è immerso. Un clima che fa sì che egli viva quasi fluttuando a mezz’aria, un po’ come un pugile suonato sul ring o come il celebre ubriaco che discute con i lampioni. E il cristiano? Non è forse anch’egli, uomo tra gli uomini, partecipe di questa condizione? Da dove allora trarre energia per impegnarsi senza trasformare la fede in utopia, l’azione in egemonia, il compito in militanza? Se oggi l’uomo sembra aver perso la convinzione che ha retto per due millenni in occidente – quella fondata in ultima analisi sul suo essere persona, soggetto integrale di diritti fondamentali e doveri sapientemente coniugati dal sistema delle leggi –, se questo
uomo è lusingato dall’idea che la tecnoscienza, con straordinaria efficacia, va diffondendo: l’uomo non è altro che il suo proprio esperimento, su cosa far leva per un impegno civile? E per un impegno civile cristianamente connotato?

Prima di tutto bisogna guardare alla mutazione in atto con una doppia certezza. Anzitutto con la coscienza che il cambiamento è talmente radicale che non può essere definito solo con la parola “epocale”. Quanto sta succedendo a livello del bios è un inedito assoluto. Da quando l’uomo è entrato sulla scena del gran teatro del mondo gli si presenta per la prima volta. Al punto di far dire a certi critici, peraltro intelligenti anche se intrisi da un eccesso di ottimismo hegeliano: “Siamo sul punto di staccare completamente l’umano dalla naturalità della specie. È in atto una sorta di grandioso ‘effetto eversivo’: la pressione evolutiva ha finito col selezionare una cultura capace di sostituirsi con la propria tecnica alla stessa selezione naturale che l’aveva prodotta. Questo è il significato autentico del nostro presente: la totalizzazione tecnica della natura. La vita sta diventando davvero ‘uno stato mentale’ […] Fin dove spingere la propria vita – nel senso della propria autocoscienza – diventerà probabilmente una scelta soggettiva, in rapporto ai costi sociali della sua durata e alle responsabilità che ne discenderanno”.

In secondo luogo ci si guarderà bene dal considerare il travaglio di oggi lasciandosi conquistare dalla “psicologia del corvo”: quella per cui quando sul campo della storia non restasse che un cumulo di cadaveri, arriverebbero i cristiani, da vincitori, a farne bottino. La grande risorsa nella fede in un Dio provvidente che guida la famiglia umana e la storia, in Gesù Cristo Salvatore che vince il peccato e la morte e nella Chiesa Madre e Maestra, che accompagna i credenti nel miracolo quotidiano della comunione solidale, non esime la libertà di ciascuno dal vivere il dramma dell’esistenza in solido con tutti i fratelli uomini e con la loro angoscia. La verità cristiana si gioca nella storia e la storia non è deducibile a priori. (…).
Accettando di buon grado che la società plurale nella quale i cattolici sono oggi chiamati a vivere implica la necessità di un confronto a 360 gradi con tutti i soggetti in campo, teso ad individuare i beni comuni sia spirituali che materiali e le politiche adeguate a promuoverli, i cattolici non devono rassegnarsi all’irrilevanza come cattolici.

Al contrario, proprio perché la rappresentanza cattolica non è più garantita da un unico partito, ai fedeli laici è richiesto di saper concorrere al bene comune rendendo così pubblicamente ragione della fecondità sociale della propria fede. E questo ha delle conseguenze decisive per i contenuti ed il metodo dell’impegno politico. In pratica, operando in partiti diversi, i laici cattolici dovranno praticare il decisivo principio del “distinguere nell’unito”. Non dovranno perdere, nell’elaborazione e nell’attuazione dei programmi, il senso della comune appartenenza ecclesiale e mostrare la necessità dell’unità nelle questioni non negoziabili: in necessariis unitas. Questo esalterà la libertà nella sfera dell’opinabile, quando non sono in gioco questioni di principio: in dubiis libertas. In ogni caso non farà venir meno, in ogni momento, la carità: in omnibus caritas.

A questo scopo i laici dispongono dell’eccezionale patrimonio rappresentato dalla dottrina sociale della Chiesa. In proposito è necessario un impegno “critico” con i processi storici della propria epoca.
In ogni caso la situazione dei cattolici di oggi in merito non è diversa da quella dai cattolici di ogni epoca. In tal senso può essere utile ricordare la riflessione svolta da Del Noce, nel solco della lucida analisi prodotta dal filosofo francese Etienne Gilson, sull’origine dell’impegno politico dei cattolici e sulla natura della loro azione all’epoca di Leone XIII. Scrive Del Noce che la rinascita cattolica prospettata dal Pontefice doveva essere “inscindibilmente religiosa, filosofica e politica”.
Oggi potremmo dire, in altre parole, che l’impegno politico dei cattolici deve necessariamente passare per la capacità della loro esperienza di fede di generare cultura (secondo la prospettiva indicata da Giovanni Paolo II).

Per questo l’azione dei politici deve partire dai bisogni/desideri propri dell’esperienza costitutiva dell’uomo. Cosa che domanda anche una corretta interpretazione culturale della fede: una fede integralmente vissuta ha una irrinunciabile rilevanza antropologica, sociale e cosmologica, carica di conseguenze politiche assai concrete.
Tuttavia è necessario richiamare, per concludere, che per il cristiano questo impegno civile, soprattutto quello politico, altro non è che il prolungamento, fatte le debite distinzioni, della logica della testimonianza intesa come atteggiamento ad un tempo speculativo e pratico (non come pura generosità, ma come concezione e metodo d’azione). Se si testimonia in ogni ambito dell’umana esistenza, compreso quello politico e partitico, le proprie convinzioni, non si lede il diritto di nessuno. Al contrario lo si promuove e si mette in moto la virtuosa ricerca del “compromesso nobile”, con il realismo di chi sa che non si dà convivenza civile senza sacrifici.

Estratto del libro “Buone ragioni per la vita in comune”, per gentile concessione
dell’autore

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