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Sintesi di un’analisi uscita sul sito dell’Aspen Institute

Nell’avvicinarsi delle elezioni del 16 dicembre è tornato di grande attualità in Giappone il tema della revisione dell’articolo 9 della Costituzione, che non solo sancisce il rifiuto della guerra come mezzo di soluzione dei conflitti ma anche vieta la creazione di un apparato militare potenzialmente aggressivo. Per quanto non sia la prima volta che si apre un dibattito sull’argomento, le implicazioni di ordine strategico appaiono più rilevanti rispetto al passato, in ragione del mutato contesto in cui il Giappone si trova a muoversi, e prefigurano cambiamenti di rilievo nei rapporti con tutti i partner, regionali e globali. Gli stessi aspetti formali del dibattito, a partire dal nome e dallo stato giuridico di quelle Forze di autodifesa (Sdf) che svolgono le veci delle “normali” forze armate, fanno ora presagire una svolta di sostanza circa la “responsabilità militari” di una grande potenza economica come il Giappone.

L’interrogativo di fondo riguarda tempi e modalità della revisione della strategia di sicurezza nazionale di cui l’eventuale cambiamento della Costituzione sarebbe un tassello non secondario. In questa direzione spinge la ripresa di toni nazionalistici da parte di personaggi di spicco del quadro politico nipponico: da Abe Shinzo, che presumibilmente sarà il prossimo capo del governo, a Ishihara Shintaro, pirotecnico ex governatore di Tokyo divenuto presidente del raggruppamento, il Partito della restaurazione del Giappone, che aspira ad essere la terza forza del futuro Parlamento. Quando era primo ministro (2006-2007), Abe aveva costituito un comitato ad hoc per studiare come modificare la Costituzione e non aveva potuto attuare gli auspicati cambiamenti solo perché era stato costretto a dimettersi. Ishihara è l’artefice numero uno dell’attuale fase di tensione tra Tokyo e Pechino a causa delle isole Senkaku. Il suo annuncio di voler fare acquisire al governatorato di Tokyo la proprietà di due isole dell’arcipelago rivendicato dalla Cina aveva costretto il premier Noda Yoshihiko a nazionalizzare le isole, provocando le irate reazioni cinesi.

Le spinte decisive appaiono però quelle dall’esterno, ovvero la crescente assertività cinese, con il connesso “build up” militare, e le richiese americane di un maggiore coinvolgimento di Tokyo in una strategia di “blocco” che ha l’obiettivo di garantire la stabilità regionale. Si tratta di spinte convergenti seppure di segno opposto. Stanno diventando un fattore di accelerazione per una linea di sviluppo che altrimenti sarebbe lenta e contraddittoria. In Giappone infatti il pacifismo è ben radicato nelle coscienze. Ben pochi auspicano un ritorno a quel passato militarista che proprio la Costituzione e il suo articolo 9 intendevano cancellare. Ma sempre più urgente appare agli occhi dell’opinione pubblica una risposta secca e “muscolare” a quelle che vengono percepite come provocazioni cinesi.

Altri nodi irrisolti sono come conciliare il rifiuto della guerra con il ruolo giapponese di massiccio esportatore di armamenti, e come inserirsi in sistemi collettivi di difesa che impongano di dispiegare uomini e mezzi lontano dal territorio e dalle acque nazionali.

Fabio Tana è stato capo della redazione esteri dell’agenzia di stampa Ansa fino a novembre del 2009 e ricercatore dell’Ispi e dell’Ipalmo.

Ecco la Costituzione pacifista (e le nuove strategie) del Giappone

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