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La concorrenza è uno dei principi del mercato interno all’Unione Europea, volto al raggiungimento degli obiettivi dell’Unione, tra cui lo sviluppo sostenibile dell´Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un´economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale.
 
La tutela della concorrenza, a livello di Unione, è affidata a norme in parte destinate alle imprese (divieti di intese restrittive della concorrenza e di abusi di posizione dominante, controllo delle concentrazioni) in parte agli Stati stessi (divieti di aiuti con carattere distorsivo). Questo assetto normativo è poi replicato negli ordinamenti nazionali con norme equivalenti nei fini e, spesso, coincidenti nella formulazione.
 
La costruzione del mercato interno presuppone la soppressione di tutte le misure potenzialmente discriminatorie, aiuti o sovvenzioni, accordati dagli Stati alla produzione nazionale, e appare quindi antinomico alla politica industriale tradizionalmente intesa. Il contrasto tra politica antitrust e politica industriale è stato colto fin da subito e, con il progressivo affermarsi di un paradigma che poneva al centro dell’intervento statale la liberalizzazione dei mercati, la seconda è apparsa recedere.
 
Negli anni più recenti, la “supremazia” della tutela della concorrenza è stata più volte messa in discussione. L’attuale congiuntura sfavorevole e i gravi effetti in termini occupazionali forniscono più di un motivo per ripensare il rapporto tra politica industriale e tutela della concorrenza.
 
Il tema che spesso si dibatte è se, date le scelte di fondo prima richiamate, residua uno spazio per un’attiva politica industriale e che forma questa deve prendere. Non è mio interesse affrontare questo aspetto. Mi preme piuttosto chiedermi se gli obiettivi della politica industriale (occupazione, crescita, sostegno a determinati settori produttivi) possano o debbano informare anche l’applicazione delle norme poste a tutela della concorrenza.
 
La mia posizione è che l’antitrust deve essere impermeabile a valutazioni di questo genere e che qualora, nell’interesse generale, si debba stabilire un’eccezione a tale regola, la sua individuazione debba essere attribuita in via esclusiva alle istituzioni che hanno la responsabilità di indirizzo della politica economica.
 
La normativa antitrust è ritenuta strumentale a tutelare il benessere del consumatore. Tuttavia non bisogna dimenticare che la sua peculiarità è di mirare a questo fine attraverso la protezione della concorrenza e non già mediante l’imposizione alle imprese di condotte presuntivamente a favore degli acquirenti. Anzi, l’azione dell’antitrust, su un piano teorico, muove dall’assunto che non è possibile conoscere quali siano le scelte delle imprese realmente a vantaggio dei consumatori. Se avessimo questa informazione, sarebbe possibile sostituirsi alle imprese e pianificarne l’attività. Non solo questa informazione non è disponibile, ma si ritiene che esista un meccanismo, il gioco concorrenziale, che ne rende superflua l’acquisizione, perché esso è già in grado di indurre le imprese ad assumere le decisioni più appropriate.
 
A differenza di altre forme di intervento pubblico, che partono dall’accertamento di un market failure, l’antitrust presuppone una fiducia sulla capacità del mercato di operare nell’interesse dei consumatori e si limita a fissare (ed applicare) le regole generali a presidio del buon funzionamento di questo meccanismo.
 
La concorrenza non è solo una modalità di protezione del benessere dei consumatori. Essa svolge anche le funzioni di: governare l’allocazione delle risorse, stimolare comportamenti efficienti nell’organizzazione della produzione, operare una selezione delle imprese. Attraverso questi tre canali, la concorrenza accresce la produttività dei fattori, cosa di cui abbiamo sicuramente bisogno e che dovrebbe essere uno dei fini della politica industriale.
 
Questo rapporto tra concorrenza e produttività è ben documentato nella letteratura economica. Ma esiste un’uguale relazione virtuosa tra politica della concorrenza e produttività? Un recente lavoro empirico, a cui ho partecipato, fornisce una risposta (Competition policy and productivity growth: an empirical assessment, in corso di pubblicazione su Review of economics and statitics). Esso mostra che la politica della concorrenza può accrescere la produttività in modo significativo. Questo effetto si produce però se l’azione antitrust è “buona”.
 
La bontà dell’intervento a tutela della concorrenza può essere giudicata su molte dimensioni che, tuttavia, possono essere sintetizzate nella ricerca di un’appropriata deterrenza dei comportamenti anticoncorrenziali. In questa prospettiva, gli obiettivi di politica industriale, se entrano nei criteri di applicazione delle norme antitrust, alterano la funzione di deterrenza che svolgono, perché introducono eccezioni, ampie e imprevedibili, alla illegittimità della condotta restrittiva della concorrenza.
 
Lo studio mostra anche che l’efficacia dell’intervento antitrust è migliore se si combina con un sistema giudiziario (civile e amministrativo) efficiente. Il che costituisce un ulteriore motivo per ritenere una riforma della giustizia civile cruciale per la crescita economica. Questi risultati non consentono di dire molto sull’opportunità di una politica industriale. Tuttavia, rimarcano l’importanza di una chiara distinzione di competenze tra le istituzioni di politica economica.
 
Nei casi in cui fosse davvero utile restringere o limitare temporalmente la portata dei divieti antitrust, per perseguire un interesse generale ritenuto superiore, è bene che ciò avvenga con decisioni di coloro che hanno il compito di ponderare e mediare i tanti interessi in gioco, vale a dire coloro che hanno responsabilità politiche e non tecniche. Il carattere eccezionale di un simile intervento è in questo modo ancor più marcato, evitando un’indebita confusione di ruoli.

Politica industriale e antitrust: un rapporto da ripensare

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