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In Europa molti invocano un rilancio della crescita economica attraverso le “riforme strutturali”, rimanendo ancora su un sentiero di austerità e di consolidamento fiscale. Il problema purtroppo sembra essere che ci vuole davvero troppo tempo a vedere dei risultati. Dobbiamo rilanciare crescita e competitività e dare fiato al credito, all’economia e agli investimenti oggi, non fra dieci o venti anni. Per allora saremo morti, disoccupati, forse in mezzo a una bella guerra civile. Le riforme strutturali sono sacrosante, senza dubbio: mobilità del lavoro in tutta l’Europa, un miglior clima per gli affair, incentivi, libertà dalle pastoie burocratiche, portabilità dei diritti pensionistici, investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione e così via. Ma abbiamo anche bisogno di uno stimolo importante nel breve periodo se vogliamo uscire da questo ristagno.
 
Diversi analisti hanno di recente affrontato il tema della crescita in Europa. Un recente paper di un economista americano del National bureau of economic research (Nber), Jay Shambaugh, identifica correttamente i problemi dell’Europa in tre crisi interconnesse: una crisi di crescita, una di debito e una bancaria. Sono strettamente legate fra di loro e quindi richiedono soluzioni parallele e combinate, soprattutto nel breve periodo. Fra queste per esempio l’inflazione, forme di svalutazione fiscale per ridurre l’impatto fiscale sul costo del lavoro delle imprese, un mandato e una politica più esplicitamente a sostegno della crescita per la Bce e l’emissione di titoli risk free a livello europeo, che possano diventare un vero benchmark per il mercato. Ciò che è interessante in questa analisi è la natura interconnessa delle crisi e l’esortazione ad agire subito, anche con strumenti espansivi di breve periodo.
 
Alcune ricerche recenti di banche di investimento e think tank mostrano che il Pil tedesco ha battuto tutte le aspettative di crescita nel primo trimestre del 2012. Questo risultato è senz’altro anche dovuto a politiche economiche rigorose e ben calibrate. Ma è soprattutto dovuto alla crescita delle esportazioni nel passato decennio, che spiega una porzione fondamentale della crescita economica tedesca. La maggior parte di queste esportazioni proviene dall’eurozona e una bella fetta viene dai Paesi del sud Europa. La Germania dovrebbe comprendere che deprimere l’Europa del sud con politiche di austerità e rigor mortis alla fine danneggerà anche l’economia tedesca. Si tratta di un sistema molto integrato: come il risparmiatore cinese ha bisogno del consumatore americano, così i produttori tedeschi hanno bisogno di noi.
 
Due economisti tedeschi (Moog e Raffelhueschen), citati da Davide Sorrentino, tracciano una lucidissima analisi del debito dei Paesi europei e Ocse in generale. Guardando al debito complessivo delle economie, quest’analisi mostra che, includendo anche il debito del settore privato, e non solo del settore pubblico, e il debito di lungo periodo (il famoso debito implicito della sanità e sicurezza sociale), allora le graduatorie nel rapporto debito/Pil cambiano abbastanza drasticamente fra i Paesi europei. Per esempio, la Germania ha un debito piuttosto elevato, più alto persino dell’Italia. Ci sono Paesi poi che hanno più del 1000% di debito sul Pil, come l’Irlanda e il Belgio, se si adotta questa definizione. Quindi i rating sul debito “delle economie” dovrebbero riflettere questa realtà. È una prospettiva che, per lo meno, dovrebbe spingere a una visione più equilibrata del peso del debito per i Paesi, e di una diversa reciprocità economica, che richiede soluzioni coordinate.
 
La Germania dovrebbe ricordare il Trattato di Versailles e il saggio scritto allora da John Maynard Keynes, intitolato Le conseguenze economiche della pace. L’umiliazione e l’irragionevole peso del debito imposto alla Germania dalle nazioni che vinsero la Prima guerra mondiale fu alla base di una reazione piuttosto drammatica del popolo tedesco, che portò a turbativa sociale, alla nascita e sviluppo del nazismo, e, alla fine, alla Seconda guerra mondiale. La Germania oggi dovrebbe ricordare quella lezione della storia e non imporre ai Gipsy il tipo di condizioni capestro che alla fine portano i popoli a sovvertire i governi e ad andare per le strade, sostenere protezionismo e localismo, e forse anche andare alla guerra, come successe più di 80 anni fa. È una importante lezione che i policy maker, soprattutto quelli nella Bundesbank, dovrebbero tenere a mente.
 
Alcuni degli ingredienti che sembrano essere necessari a rilanciare la crescita in Europa e ad uscire dalla crisi sono: accordi Ue più flessibili (che implichino forse velocità e politiche diverse per Paesi diversi); una governance migliore a livello europeo, più coordinata e condivisa in modo democratico; un graduale spostamento da pure politiche di austerity a misure espansive e di svalutazione fiscale dei costi del lavoro.
 
È comunque necessario definire al più presto alcune questioni che oggi rimangono aperte come: la sostenibilità dell’eurozona; l’eventuale uscita dall’Ue di alcuni Paesi; il rilancio della crescita e competitività nel breve periodo; il contributo dei nostri vicini di casa, le regioni Mena e Africa, nel recupero della crescita, degli investimenti, del commercio internazionale e della prosperità europei.

Diamo una lezione alla Merkel

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