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Tutto il mondo si è svegliato ieri mattina con la notizia, saputa già nella notte oltreoceano, della vittoria di Barack Obama. Un nuovo presidente degli Strati Uniti, dunque, non ci sarà, perché lo sfidante repubblicano Mitt Romney non è riuscito nella storica impresa, nonostante la profonda crisi economica e i mutamenti dello scacchiere internazionale che hanno tempestato il mondo in questi ultimi quattro anni.
Il primo presidente nero d’America sarà dunque successore di se stesso, sebbene il clima che accompagna questa vittoria non sia neanche lontanamente paragonabile all’impetuoso vento di cambiamento che Obama impersonava alla fine del passato decennio.
 
Questo clima realistico e inevitabilmente pragmatico non è, tuttavia, una cattiva notizia. Siamo davanti a un avvenire statunitense che sarà necessariamente dominato dal vincolo di collaborazione tra Democratici e Repubblicani, imposto dai numeri del Congresso e del Senato. Oltretutto, sebbene da Chicago Obama abbia ostentato subito ottimismo, asserendo che “il meglio deve ancora venire”, tutti sanno benissimo lì come altrove che i Repubblicani passeranno al setaccio tutte le future decisioni della Casa Bianca senza concedere sconti.
 
A vincere realmente non è stato il sogno afro americano, dunque, ma il centrismo pragmatico e moderato. Una vittoria europea per delle elezioni molto, molto americane. Il primo duello televisivo tra i due è stato perciò il più rivelativo di quanto è avvenuto, una specie di spaccato politologico. E’ vero, Romney l’ha vinto poco prima di perdere le elezioni ma Obama si è imposto un mese dopo con quel passo ponderato e un po’ conservatore che agli inizi non era piaciuto a nessuno e che egli ha costantemente mantenuto. Forse questa constatazione un po’ sottile permette di cogliere il vero colpo di genio del leader democratico, la sua capacità di stare sul pezzo e di seguire il cuore e non la sola comunicazione. Se avesse tenuto lo stile del 2008, probabilmente Romney lo avrebbe battuto, perché più motivato e dinamico di lui. Invece Barack ha sposato la linea dell’uomo ormai di esperienza che è stato alla fine più rassicurante del radicalismo ideologico della base Repubblicana.
 
E’ paradossale ma Obama ha intercettato e convinto perché conservatore, mentre i Tea Party hanno perso perché radicalmente provocatori e riformisti nel loro modo di presentare integrità e produttività in salsa yankee.
Tutto ciò apre anche la seconda grande questione, quella della portata dirompente del ruolo della religione nel paradigma politico della destra americana. Chiamare in causa Dio per giustificare i valori significa fare un discorso religioso senza religione, puntando sul veicolo del sacro per puntellare i valori permanenti della società. Questi, però, o si giustificano da sé e per tutti o sono la caricatura di quello che vogliono significare, profetizzando inutili sciagure. La debolezza, insomma, del modello reazionario non è la religione come tale, ma il modo in cui è posta l’equivalenza tra valori nazionali e valori spirituali, perdendo di vista il portato universale e materiale che il sacro deve apportare, dilatando gli orizzonti, un’ulteriorità di senso senza la quale l’assoluto diventa ideologia estrema e non solidità valoriale.
 
Che cosa, alla fin fine, queste elezioni possono dire dell’Europa e delle future elezioni italiane? La riposta è abbastanza semplice. La linea di tendenza, evidenziata dagli elettori americani, è quella della calma ragionevolezza, di un’apertura al nuovo, sicuramente identificata ancora con Obama, che tuttavia si declina nel senso di un pragmatico procedere senza avventure, facendosi carico della complessità senza sfidarla in modo oltranzista sia pure con convinzioni che possono essere in sé giustissime. Sto pensando al valore della vita, della famiglia e del merito, cui tanto è sensibile l’America profonda, ma che non ha senso perseguire con quell’intransigenza e quel massimalismo. Merito, vita e famiglia sono ideali supremi se non diventano incubi per una frustante incapacità che premia solo orgoglio ed egoismo.
 
In questo momento anche l’Europa e ancor più l’Italia ha bisogno di veder garantita dalla politica la capacità di governare serenamente, quella pacatezza che i pensatori classici non vedevano espressa nella forza e nell’intemperanza, ma nella prudenza, ossia nell’azione calibrata e misurata dalla razionalità. Anche in Italia, insegnano gli Usa, bisogna lavorare per edificare il Centro, inteso come un’area di valori cooperativi, solidali, interculturali, garanti in tal modo di un futuro democratico per tutti, vecchi e nuovi cittadini. Un Centro che è luogo di attesa e di decisione al contempo, di attenzione alle vicende e a quanto deve essere deciso di volta in volta con competente risolutezza, guardando al presente come a un tempo che oscuramente stupisce e anticipa l’avvenire.

Con Obama ha vinto il centrismo pragmatico e moderato

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