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Non ricordo un solo incontro della Nato – di alto, medio o basso livello – in cui non sia stata richiesta agli Stati membri una contribuzione più adeguata in termini di risorse. Questo richiamo alla ripartizione degli oneri militari o burden sharing è sempre stato più perentorio per Paesi “avari” come il nostro, che è da sempre ben lontano dagli obiettivi di spesa indicati dal vertice dell’Alleanza. Da tempo inoltre si segnala una crescente preoccupazione statunitense per la maniera con cui certi europei, e l’Europa nel suo complesso, interpretano l’appartenenza alla Nato.
 
L’ex segretario alla Difesa Robert Gates è stato abbastanza brutale nel suo discorso di congedo, avanzando il dubbio che gli Stati Uniti in futuro possano continuare a comprendere e ad accettare gli investimenti che effettuano nella Nato, una volta che a guidare il Paese vi sarà personale che non ha conosciuto la Guerra fredda e la divisione del mondo in blocchi. Gates ha pure ricordato come nei decenni del bipolarismo Usa-Urss, l’America contribuiva nella misura del 50% alle spese della Nato, e oggi sia arrivata al 75%: un livello che, in tutta evidenza, non è più accettabile. Il tema è stato riproposto dal successore di Gates alla Difesa, Leon Panetta, ed è stato accennato dallo stesso presidente Obama.
 
Cifre contabili a parte, sotto il profilo della concretezza della contribuzione sul campo, il nostro Paese è sempre stato tra i più puntuali e tra i più generosi partner, sempre pronto a togliere le castagne dal fuoco all’Alleanza ogni volta che questa si è trovata investita di compiti assegnati o propri, nei teatri che ben conosciamo e che sono ancora in larga parte attivi. Il teatro che conosco meglio è quello del Kosovo, perché nella circostanza ero vicecomandante della coalizione multinazionale e comandante operativo delle Forze italiane. È bene ricordare, anche a chi si mostra sempre sistematicamente sordo a questo richiamo, che senza la partecipazione italiana non si sarebbe potuto fare quello che si è fatto in Kosovo, ma anche in Libia, dove senza l’Italia l’intervento sarebbe assomigliato ad una partita a poker.
 
Al rilancio successivo della mano molti si sarebbero infatti ritirati, impossibilitati a seguire il gioco per carenze di bilancio; è una considerazione che valeva tanto per la Francia quanto per gli altri alleati. In pratica, a un formale “egoismo” dell’Italia nel rispettare le cifre canoniche di contribuzione alla Nato, è sempre corrisposta sul campo una concretezza e un’operosità che ci mette ai primi posti in termini di contributo militare. È una primazia che tocca anche la qualità tecnico-professionale dell’apporto operativo. Nella guerra del Kosovo eravamo tra i pochissimi partner ad avere una capacità Sead, quella che consente di neutralizzare le difese aeree degli avversari. Abbiamo sostituito i vecchi Boeing 707 e ora abbiamo i più moderni aerorifornitori sul mercato, già utilizzati in Libia.
 
Non per merito della sola aeronautica, ma del Paese nel suo complesso, abbiamo un’ottima capacità di intelligence, e un sistema satellitare tra i più performanti, Stati Uniti compresi. Disponiamo infine di una capacità Uav, in cui oggi mi sentirei di dire che l’Italia ha una professionalità di prim’ordine, superata solo da Israele e Stati Uniti: voglio qui ricordare i nostri pochi ma efficienti ed efficaci Predator che hanno fatto il loro debutto in Iraq nel 2004 per vigilare sull’effettuazione delle elezioni politiche generali. Partiamo dunque da una buona base. È una professionalità militare che andrà valorizzata, anche tenendo presente il contesto di un’Europa che mostra notevoli deficit operativi e scarsa volontà di condividere risorse e piattaforme, di eliminare le sovrapposizioni e i doppioni, e più in generale di costruire una politica di sicurezza comune, un proprio pilastro continentale all’interno della Nato.
 
Entriamo qui nel campo della cosiddetta Smart defence o difesa intelligente, la demoltiplica successiva al burden sharing. Termine nuovo e infelice, perché presupporrebbe che finora siamo stati “stupidi” sulle questioni militari, ma il concetto sottostante corrisponde a un’esigenza avvertita e ribadita da tempi non sospetti, non segnati cioè dalla crisi economica e dalle ristrettezze di bilancio. Fare difesa intelligente vuol dire semplicemente investire risorse e impiegarle bene, con efficacia; vuol dire fare di più con meno. Ebbene, è chiaro che le operazioni in Kosovo nel 1999 e in Libia nel 2011 hanno evidenziato forti limiti per quello che riguarda la concezione, la programmazione e la conduzione di operazioni aeree complesse. Mentre per gli Stati Uniti proiettare e impiegare in operazioni reali la forza aerea è quasi un riflesso condizionato, per le potenze europee si tratta ancora di un processo farraginoso, lento e complicato.
 
Nei dodici anni che separano il Kosovo dalla Libia non siamo riusciti a trarre nessuna lezione concreta, anche se gli scenari erano gli stessi. Semmai i problemi si sono complicati di fronte a un’alleanza europea più fragile e sbriciolata, messa in crisi dalla fuga in avanti francese: non solo un’opportunità non sfruttata, dunque, ma un vero e proprio passo indietro e nella direzione sbagliata, contraria all’identità comune di difesa e dell’integrazione europea. Tornando all’aspetto militare, i problemi di coordinamento, ma anche i veri e propri vuoti di capacità evidenziati dalle operazioni aeree citate, rendono e renderanno ancora più prezioso il nostro Paese. L’Italia per questo si è mossa per tempo con l’obiettivo di disporre, anche se in forma di nicchia, di tutte le capacità possibili per far fronte alle richieste di contribuzione da parte della comunità internazionale.
 
Ciò è avvenuto nella consapevolezza nazionale che il principio europeo di condivisione dei costi e dei progetti, il più volte ribadito pooling and sharing, anche se fondamentale e imprescindibile, viene praticato assai poco. Questa percezione strategica ci ha preparato dunque ai futuri sviluppi, e anche all’attuale sfida della Smart defence. È da qui che si potrà e si dovrà partire per realizzare quell’Europa della difesa che ormai gli stessi Stati Uniti ci richiedono.

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