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Il nostro Paese attraversa attualmente uno dei momenti più difficili dal secondo dopoguerra ad oggi. La crisi economica e il dissesto politico hanno messo a nudo i problemi strutturali del sistema nel suo complesso, generando prospettive pessimistiche sia riguardo agli equilibri interni, sia sul nostro ruolo nella comunità internazionale.
 
Anche il settore difesa è stato investito dalla crisi, colpito da tagli annunciati che rischiano di comprometterne il funzionamento e l’operatività. Il 2012 si apre, infatti, con previsioni di tagli al budget di quasi 1,5 miliardi di euro, concentrati soprattutto nel settore degli investimenti. Il bilancio della difesa per il 2012 scende così a 19,9 miliardi di euro, pari all’1,22% del Pil, mentre quello relativo alla sola funzione difesa – al netto quindi delle spese per l’Arma dei Carabinieri, gli ausiliari e le funzioni esterne – a 13,5 miliardi di euro, ovvero lo 0,83% del Pil, un valore sensibilmente inferiore a quello dei principali Paesi europei.
 
La crisi economica ha colpito il nostro Paese proprio nel momento in cui l’area mediterranea è interessata da profondi processi di cambiamento dei quali è difficile intravedere l’esito finale. Al contempo, gli Stati Uniti si ritrovano impegnati in un processo di disengagement dal Mediterraneo, in un’ottica di concentrazione delle priorità nello scenario del sud-est asiatico, e chiedono pertanto un maggiore coinvolgimento dei Paesi europei nella gestione delle varie crisi.
 
L’Italia non può permettersi di rimanere spettatrice passiva in una fase così delicata della storia del mare nostrum. Le rivolte arabe, il rapido deteriorarsi della situazione mediorientale e i contrasti sempre più accesi tra le varie etnie del mosaico balcanico rendono quanto mai necessaria una forte assunzione di responsabilità da parte del nostro Paese, nel rispetto e nel potenziamento delle nostre prospettive strategiche di medio e lungo periodo. Le prime fasi della rivoluzione libica hanno dimostrato come, in assenza di una risposta unitaria da parte della nostra classe politica, l’Italia può essere messa in secondo piano a livello internazionale anche in quei contesti nei quali dovremmo far valere la nostra esperienza, la conoscenza del territorio e i legami storici, economici, culturali.
 
Al momento attuale, dunque, il pericolo maggiore per il nostro Paese è rappresentato dall’inazione e dalla frammentazione politica, piuttosto che dalla crisi economica. Assecondare per inerzia lo stato delle cose, cercando di arginare la deriva degli eventi tramite inefficaci misure di corto respiro, può solamente portare ad un ridimensionamento del ruolo del nostro Paese in ambito internazionale, di certo non giustificabile alla luce dell’impegno costante e della professionalità dimostrata negli anni dalle nostre Forze armate in molteplici scenari.
 
Pertanto, la situazione attuale deve essere vista come l’occasione di portare avanti una riforma globale del settore della difesa, giungendo così a un importante punto di svolta per tutto il nostro sistema-Paese.
È indubbio che una riforma delle Forze armate debba riguardare principalmente il settore del personale. La strada intrapresa – oltre dieci anni fa – verso il “modello a 190mila unità” ha generato costi non più sostenibili, con il 70% della spesa per la funzione difesa destinata al personale, e ha portato ad una moltiplicazione d’incarichi e gradi che inficiano il funzionamento del modello stesso. A fronte delle 180mila unità attuali, si riscontra un numero di ufficiali pari a 22mila, e di ben 56mila marescialli. Tutto ciò rende necessario un ripensamento in tempi brevi di tutto il settore del personale, con l’introduzione di una graduale riforma delle nostre Forze armate e la definitiva adozione del modello a 130/140mila.
 
Questo permetterebbe di ricondurre la spesa entro i canoni Nato, con una ripartizione del 50% dei costi per il personale e del restante 50% destinato ad esercizio e investimento.
Una riforma del personale è necessaria anche per evitare che i tagli vadano a colpire proprio il settore dell’investimento, quello che, insieme alla partecipazione alle missioni all’estero, è più sensibilmente legato alle nostre prospettive strategiche di lungo periodo. Attualmente, infatti, gran parte delle risorse per l’investimento sono destinate a programmi europei, come il progetto dell’Eurofighter o le fregate Fremm. Una diminuzione del nostro impegno in questi ambiti può solamente portare a un deterioramento del processo d’integrazione europea nel campo della difesa, senza peraltro offrire la garanzia che eventuali tagli negli ordini già effettuati possano ridurre la spesa nel breve periodo.
 
L’approfondimento dell’integrazione europea nell’ambito della difesa sembra essere l’unica via percorribile per portare avanti una progressiva razionalizzazione degli strumenti militari europei. La specializzazione dei singoli Paesi, riguardante sia il settore produttivo-industriale sia quello operativo, avrebbe come diretta conseguenza un migliore sfruttamento delle sinergie e delle potenzialità offerte dalle attività interforze. In tale contesto, il nostro Paese può senza dubbio concentrare mezzi e risorse nell’implementazione delle capacità di gestione degli scenari post-conflict, vero e proprio ambito d’eccellenza delle nostre Forze armate, senza però dimenticare che continuerà ad essere necessario mantenere una serie di capabilities in grado di partecipare a pieno titolo a missioni internazionali in contesti ad alta intensità, quale ad esempio un conflitto convenzionale.
 
Tutto questo a condizione, ovviamente, che l’attuale classe politica riesca nel difficile intento di introdurre le riforme necessarie al nostro Paese, con l’adozione di modelli virtuosi di spesa e di sviluppo.

Per una strategia condivisa

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