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Manca poco più di un mese alla Cop30 di Belém, in Brasile, l’appuntamento annuale che vede le grandi economie della Terra tentare, spesso invano, di salvare il Pianeta dal disastro ambientale. Ed è già tempo di grandi manovre, camuffate spesso e volentieri da gesti dal chiaro sapore politico. Come sempre, sotto i riflettori ci sarà lei, la Cina. Il Paese più paradossale del mondo, ovvero quello che inquina di più ma al contempo vanta la maggiore infrastruttura per le rinnovabili del globo, oltre al fatto di essere padrone quasi assoluto del mercato fotovoltaico mondiale, grazie alla fornitura di componentistica e materia prima.

Proprio in questi giorni è arrivata la mossa che sa di plateale. La Cina punta a ridurre le emissioni del 7-10% entro il 2035, fissando un apposito cap per la Co2. Ciò segna un cambiamento radicale nella politica climatica del Dragone. In precedenza, l’attenzione del governo di Xi Jinping, infatti, era rivolta alla definizione di scadenze lasche per il raggiungimento della neutralità carbonica. Insomma, Pechino sembra proprio intenzionata a presentarsi all’appuntamento brasiliano con l’abito buono, senza quell’atteggiamento ambiguo che ha sempre accompagnato fin qui la presenza del Dragone alle varie Cop: tante promesse, pochi fatti.

Eppure, non mancano i dubbi degli esperti dinnanzi a un impegno così ambizioso. Per alcuni, per esempio, è difficile che al netto della volontà politica Pechino possa effettivamente raggiungere gli obiettivi globali dell’Accordo di Parigi. Secondo Yao Zhe, poi, consulente politico globale di Greenpeace East Asia, per rispettare il limite di 1,5 °C previsto dal medesimo Accordo di Parigi, la Cina deve ridurre le emissioni di almeno il 30% entro il 2035. Alcuni studi, infine, suggeriscono che siano necessari tagli superiori al 50%. La buona notizia, semmai, sta nel fatto che dati recenti suggeriscono che le emissioni della Cina potrebbero aver raggiunto il picco, finalmente, con la ragionevole prospettiva di un imminente plateau, seguito da un graduale calo, ma solo se il prossimo piano quinquennale messo a punto da Pechino darà priorità a una rapida decarbonizzazione.

Non bisogna mai dimenticare come le emissioni di Co2 della Cina hanno superato quelle degli Stati Uniti a metà degli anni 2000 e da allora sono salite a quasi 12 miliardi di tonnellate all’anno, ovvero più del doppio della produzione americana e più del triplo di quella indiana. Questo forte aumento sottolinea sia la portata della sfida cinese sia l’impatto globale di un taglio anche modesto del 7-10% entro il 2035. Sebbene molti esperti sostengano, come detto, che l’obiettivo manchi di ambizione e senso della realtà, raggiungerlo significherebbe comunque evitare centinaia di milioni di tonnellate di emissioni. La prova del nove, se così si può chiamare, oltre alla Cop30 verrà dal Summit di Shanghai, che si terrà il 25 e 26 novembre e che riunirà politici, investitori e leader del settore dell’energia per discutere delle riforme del mercato energetico cinese e del finanziamento della transizione energetica. Forse anche lì si capirà se la Cina fa davvero sul serio. Oppure no.

Cbam

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