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Il Belpaese, ben prima di essere Stato, è Nazione. Nazione antica, fin troppo giovane Stato. A caratterizzare in modo particolare la nostra storia è il dualismo economico tra nord e sud. Ora che tensioni e difficoltà investono l’Italia, si inclina all’idea di una secessione (più o meno dolce) per salvare il nord dal gorgo nel quale il sud lo trascina. È quindi quanto mai opportuna una fredda riflessione sul passato, una corretta valutazione del presente e una realistica visione di prospettiva.
Le tracce del dualismo non si ravvisano prima del 1891. In termini pro-capite il divario, nullo al 1861, passa al 3% nel 1887, al 21% nel 1914, al 43% nel 1944, per culminare al 53% nel 1951. Nel 1973 il gap si è ridotto al 34%; con la chiusura della Cassa (1976) e dell’intervento straordinario (1992), il divario riprende poi a crescere fino all’odierno 40%.
Da economista sono propenso a fidarmi dei dati, individuando negli indubbi divari sociali l’evidenza di due modelli di sviluppo simili nell’alimentare la crescita, ma opposti nel distribuirne socialmente i frutti. Possiamo quindi parlare più di “eterogeneità”, che di un “divario” iniziale.
 
Al di là di episodici interventi, solo dai primi anni ‘50 si studiano politiche per la convergenza. È così che il Mezzogiorno diviene protagonista sulla scena economica del Paese. All’insegna del riequilibrio territoriale si realizza quell’industria di base che risulterà strategica per le industrie italiane protagoniste del “miracolo economico”. Ma, a metà degli anni Settanta, la crisi energetica interrompe la politica di industrializzazione condotta fino a quel momento e affida la crescita all’impetuoso sviluppo del “modello distrettuale” centrato sulle virtù delle piccole imprese. Si inizia a sostenere che i sussidi erogati dallo Stato a imprese e privati possano sostituire specifiche politiche di sviluppo. Non sorprende quindi che il Mezzogiorno diventi un sistema “a parte”, che assorbe risorse in modo improduttivo. Va detto che la promozione della strategia modernizzatrice perseguita in quegli anni avrebbe comportato naturalmente un meccanismo di dipendenza economica, ammessa come ingrediente necessario, augurabilmente transitorio. In questo momento delicato, se viene meno la capacità di controllo o le risorse per sostenere lo sviluppo, non si possono riformare in modo coerente la società e le istituzioni. La natura della dipendenza tende così a mutare da “fisiologica” (perché transitoria) a “patologica” (perché strutturale). Negli anni Ottanta queste pressioni attivano sussidi erogati al sud in modo crescente a privati e imprese; ed accrescono il ruolo del settore pubblico sul mercato del lavoro. Si fa quindi via via strada la negazione del dualismo che, da problema nazionale, è derubricato ad uno dei tanti problemi regionali di convergenza dell’Unione. La nuova Programmazione nega il carattere di “straordinarietà” del Mezzogiorno, che invece dovrebbe risultare ancor più evidente nel contesto dell’Ue allargata. In mancanza di un disegno strategico, cresce il conflitto di interessi tra territori.
Il tema dello sviluppo viene affidato al burocratico rapporto tra Unione europea e Regioni dell’obiettivo 1 (Agenda 2000 e ora Agenda 2007-2013). Si fa strada l’idea che la via di uscita sia liberarsi del problema del sud. La relazione di accompagnamento del disegno di legge sul federalismo fiscale del Consiglio regionale della Lombardia è un vero e proprio manifesto di questa posizione.
Fermo restando il giudizio impietoso sull’esperienza dei risultati conseguiti dalle Regioni meridionali, occorre osservare che a livello macroeconomico le performance non sono state molto diverse da quelle di reputate consorelle del centro-nord, e che esse sono state ottenute in un regime di razionamento delle risorse via via più intenso. In materia di federalismo, poi, un ragionamento sui correttivi necessari dovrebbe essere un processo endogeno e non calato dall’alto per virtù dei costi standard. Senza dimenticare l’incapacità che lo Stato finora dimostra nell’interpretare alla rovescia il principio di sussidiarietà appena introdotto in Costituzione. Rigenerare comunque l’azione delle Regioni è una necessità che richiede rapidità e scelte radicali. Per fare questo salto è di vitale importanza evitare di muoversi in ordine sparso e definire una strategia comune che legittimi il ruolo del Mezzogiorno nel Mediterraneo, promuovendo un percorso di collaborazione istituzionale.
Un primo obiettivo è quello di incrementare la competitività di ogni Regione attraverso un rafforzamento di rete, di sistema. Ciò suggerisce di realizzare un coordinamento di politiche industriali, del lavoro e dell’innovazione, tra Regioni che hanno sempre più competenza in queste materie. Per contrastare il peso del lavoro nero, potrà essere di fondamentale aiuto una vera fiscalità di vantaggio finanziata da ribadire con risorse europee.
Un secondo obiettivo è porre in agenda il problema (boomerang, per la Padania) di una gestione del debito pubblico, certo rigidamente unitaria ma, trasparente nella ripartizione di costi e vantaggi su scala territoriale. Altro elemento cruciale riguarda la disponibilità e l’uso della leva creditizia e finanziaria. Il risparmio meridionale, tutt’altro che scarso, alimenta in misura consistente le aree forti del Paese, mentre accompagna con scarsa efficacia la sua economia, grazie al peculiare processo di ristrutturazione del sistema creditizio che determina oggettivamente, per le grandi banche, convenienze diverse dagli interessi delle comunità locali. Su questo terreno l’azione coordinata di più Regioni può realizzare un valido presidio delle risorse proprie. Guardando fiduciosi al futuro, tre opportunità si aprono ora all’Italia: la ritrovata centralità del Mediterraneo, figlia della globalizzazione; la vocazione di queste aree ad uno sviluppo delle fonti energetiche, sia alternative che tradizionali; il vantaggio logistico del sud sullo scenario dei mercati globali. In questo quadro, occorre favorire il passaggio dalla logica della dipendenza a quella dell’interdipendenza, grazie all’azione delle istituzioni.
Visto il nostro ritardo e l’attivismo di Francia e Spagna su questo fronte, è opportuno individuare priorità, specializzare i territori in base a vocazioni che coinvolgano tutto il tessuto infrastrutturale e portuale nazionale. In coerenza, va poi vista l’opportunità di varare non una ambigua “fiscalità di sviluppo” ma una forte fiscalità differenziata per il Mezzogiorno. Ci vuole coraggio e visione per intraprendere questo percorso, lo stesso coraggio e visione che (con il paragrafo del Trattato di Roma redatto da Pasquale Saraceno) consentì nel secondo Dopoguerra di rendere il Mezzogiorno protagonista dello sviluppo nazionale. Oggi, rispetto a questo disegno, la differenza è che il cuore del progetto sta naturalmente a sud e che il sud, oltre alle endemiche emergenze sociali, dispone di notevoli risorse potenziali (giovani, risparmio, ricerca).

Istruzioni per la riscossa

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Paolo Messa modera il convegno 'L'economia sociale di mercato'

L´appuntamento, che fa parte del ciclo di incontri ´i giovedì socio-economici dell´Ipres´, vedrà la partecipazione di  Corrado Petrocelli, Rettore dell´Università degli studi di Bari ´Aldo Moro´, Michele Emiliano, sindaco di Bari, Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera dei deputati, Giuseppe Vacca, presidente della fondazione Istituto Gramsci e Nicola Di Cagno, presidente Istituto Pugliese di Ricerche Economiche e Sociali.

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