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“It’s a bird, it’s a plane, it’s Supermario”. Monti alla Rai, twittava tempo fa un uomo politico di primo piano del centrosinistra, per rivoluzionarla, rifondarla, delottizzarla. Monti dia un “segnale” sulle fondazioni, scrivono Roberto Perotti e Luigi Zingales, per “togliere l’humus di cui si alimenta il sottobosco della politica e del clientelismo”. Per gli uomini comuni, conviene precisare.
 
Per oltre 50 anni, dalla legge del 1936, tutte le banche, comprese le casse di risparmio, sono pubbliche. Non ne bastano 20 per privatizzarle del tutto. Si incomincia con la legge Amato-Carli (1990) che scinde le due attività, da un lato le banche a fare le banche, dall’altro, a fare le “opere di bene”, le all’uopo create fondazioni, perciò dette di origine bancaria. Per Perotti e Zingales questo è il “pasticcio legislativo [in cui le fondazioni avrebbero] strappato lo status di enti di diritto privato”. È che per privatizzare ci vogliono i privati; e mentre per fare lo Stato padrone, basta un tratto di penna, per creare padroni possono volerci generazioni. C’erano altre strade? Nazionalizzare tutto e poi vendere: ma visto cosa (non) sta succedendo col gas, si dovrebbe ringraziare per lo scampato pericolo. Consentire alle banche di detenere, in deroga temporanea, il 100% delle proprie azioni e ricapitalizzarsi vendendole un po’ per volta sul mercato? Il progetto, attribuito a un grande giurista bolognese, sarebbe stato giudicato troppo drastico da Bankitalia. Provare con i voucher (buoni di acquisto scambiati su un mercato secondario)? Con Alessandro De Nicola, Francesco Giavazzi e Alessandro Penati elaboriamo un progetto, presento (1995 e 1997) il relativo disegno di legge. Ricordo Nino Andreatta: ”Non ho capito tutto, ma quel che ho capito non mi piace”. Mi guadagno un premio (lo stesso che avevano dato ad Andreatta 6 anni prima), scontri e battibecchi a volontà.
 
La storia della privatizzazione è la storia di questa tuttora incompiuta separazione. Con Amato-Carli (1990) le fondazioni hanno l’obbligo di detenere il 50% delle banche, con Dini (1994) hanno incentivi fiscali per dismetterle, e le perdono se non lo fanno entro 5 anni (1995). La battaglia decisiva si gioca sulla legge-delega Ciampi (1998), 2 anni di un estenuante percorso parlamentare. Sorvegliata a vista dal sottosegretario Roberto Pinza, con la sponda del senatore Grillo nel centrodestra, coi Ds nell’Ulivo anche loro preoccupati di non perdere contatti col “territorio”, la commissione respinge uno dopo l’altro gli emendamenti volti a fare delle fondazioni fondi di investimento e non holding di partecipazioni.
 
Il presidente dell’Acri, avvocato Guzzetti, a distanza di anni mi accusa pubblicamente di avere organizzato l’opposizione a inserire, tra le attività delle fondazioni, oltre agli “scopi di utilità sociale” anche la “promozione dello sviluppo economico”, un cavallo di Troia che, in altre mani, potrebbe consentire di tutto. E si arriva all’ultima spiaggia: far mettere in legge che solo se contengono il divieto di controllare e di partecipare al controllo di qualsiasi attività economica, gli statuti avrebbero avuto l’approvazione del Tesoro necessaria per il riconoscimento di soggetti privati, capo II, libro primo, codice civile. Mi sembrò sinceramente dispiaciuta la voce di Ciampi, quando mi rispose che su questo non ci sarebbe stato l’appoggio del governo e che ci si doveva accontentare della vigilanza del ministero dell’Economia per le fondazioni che hanno posizioni di controllo.
 
Giulio Tremonti consegna al Sole 24 Ore propositi bellicosi: “Le fondazioni? Una legge da azzerare” è il titolo dell’intervista (20 novembre 2000). Vinte le elezioni, vara una “riforma” (2001) che riduce l’autonomia statutaria delle fondazioni. Solo per prendersi una clamorosa bocciatura della Corte costituzionale: con la sentenza che sancisce che sono soggetti privati, espressione delle libertà sociali, tutelate costituzionalmente, la partita fondazioni si chiude. E per Tremonti si apre la fase del corteggiamento, concluso con le nozze in Cassa depositi e prestiti: a proposito di partecipare al controllo.
 
Se, come riconoscono Perotti e Zingales, i cittadini sono “legittimi proprietari delle vecchie casse di risparmio pubbliche“, è logico che a gestire le fondazioni siano persone scelte, direttamente o indirettamente, dai cittadini: con il voto politico locale conferiscono, insieme agli altri poteri, anche quello di gestire quel patrimonio e di destinarne gli utili a “opere di bene”: e ogni 5 anni si verifica. È quando il potere di decidere “su opere di bene” si unisce al potere di gestire attività for profit che le acque si intorbidiscono. Come ancora accade. In misura però nettamente decrescente, ed irreversibile: e poco importa se ciò sia stato per la dinamica dei mercati, per la indubbia “virtù” di alcuni uomini, o per la buona e la cattiva sorte. C’ è chi ha venduto, e si compiace; chi no, e tace. In generale le partecipazioni nelle banche sono diminuite di importanza, anche per effetto di fusioni e concentrazioni, avvenute quando al vertice della Banca d’Italia c’era chi voleva che tutto seguisse il suo “piano regolatore”. Unicredit è stata sostenuta dalle fondazioni nei tempi buoni della crescita internazionale, e nei tempi grami della crisi. Monte dei Paschi di Siena, già dagli anni ‘90 appariva a Massimo D’Alema come un curioso residuo medievale. Le banche popolari, con voto capitario, hanno problemi di governance assai peggiori. Look! Up in the sky! Allora? Per le fondazioni, cari amici, ormai perfino per SuperMario è troppo tardi

... o eterni ircocervi?

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