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In Italia, secondo l’Istituto nazionale di statistica, la religione islamica è la seconda per numero di credenti, di gran lunga inferiore ovviamente a quello dei cattolici. Per essere precisi, su 59 milioni di abitanti censiti nel nostro Paese, l’Istat stima che un paio di milioni siano di fede musulmana. Secondo l’anagrafe, la maggior parte di essi risiede nelle regioni del nord: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. Se i fedeli islamici sono due milioni, allora – vi chiederete voi – le moschee nel nostro Paese saranno decine, centinaia? Non è così. Le uniche due moschee vere e proprie, per grandezza e numero di fedeli, sono quelle di Monte Antenne a Roma e di Segrate, in Lombardia. Nella gran parte dei casi, gli altri luoghi di culto sono costituiti da immobili adibiti a sale di preghiera.
 
Una piccola galassia sulla quale non vi sono rilevazioni ufficiali: qualche anno fa, ricerche riprese dai quotidiani riferivano di 735 luoghi di preghiera islamica presenti in Italia. In realtà, quelli effettivamente censiti dalle forze di polizia sono di meno: un rapporto segnala 155 piccole “moschee” e 118 luoghi di culto. Inoltre, l’insieme delle associazioni islamiche, ciascuna presumibilmente dotata di una sala di preghiera, ammonta a 339. Sommando le tre cifre, viene fuori un totale di 612 strutture, piccole, medie e grandi, dove si effettuano riti di devozione e di preghiera legati all’islam. Ce ne sono in tutta Italia, ma la maggior parte si trova nelle aree di quattordici province: Cuneo, Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova, Treviso, Verona, Vicenza, Reggio Emilia, Bologna, Perugia, Roma e, nella punta dello Stivale, Reggio Calabria.
 
Un altro censimento informale riguarda gli imam, ossia i religiosi che svolgono il ruolo di guida spirituale all’interno delle comunità islamiche. Nel gennaio 2009, 263 imam lavoravano nei luoghi di culto islamici italiani: la maggior parte di essi, il 55%, risultava di nazionalità marocchina. Molti pensano che l’imam sia paragonabile al sacerdote della religione cattolica. Ma le due figure non sono esattamente sovrapponibili: intanto la parola “imam” in arabo indica lo “stare davanti” alla comunità, ma può riferirsi sia a un uomo che, per le sue conoscenze spirituali, risulti in grado di fungere da guida per una piccola o grande comunità, sia a un credente molto devoto ed esperto del complesso rituale della preghiera, la cosiddetta “salat”.
 
Anche lui, per così dire, “sta davanti”, nel senso che si piazza davanti al gruppo dei fedeli inginocchiati in preghiera di modo che persino quelli meno esperti, imitando i suoi movimenti e ripetendo le sue parole, siano in grado di compiere il rito della salat senza errori. In tempi come quelli nei quali viviamo, servono persone capaci di assumere su se stesse, in determinati frangenti storici, l’arduo e spesso ingrato compito di fare da ponte fra culture diverse, per provare a saldare fratture, ad appianare contrasti e incomprensioni.
 
Sono gli alfieri del dialogo, coloro che operano per opporre, all’ineluttabile “scontro di civiltà” teorizzato negli anni Novanta dal saggio del celebre studioso politico statunitense Samuel Huntington, una più pacifica mediazione che porti a un auspicabile incontro fra civiltà. Fin quando ci saranno uomini del dialogo a far da ponte fra religioni e culture diverse, la possibilità di una convivenza pacifica, in Paesi come il nostro, dove la libertà di culto è garantita dalla Costituzione, non sarà una chimera. Il problema è che, fra il desiderio di integrazione e pacifica convivenza di molti cittadini e intellettuali di fede islamica e la volontà fattiva di farli integrare espressa da molti italiani, si frappone un nemico infido e feroce, costituito dai pregiudizi, dalle paure e dai timori, talvolta strumentalizzati a fini politici da leader discutibili. Basta una polemica sui giornali o una piazzata in televisione a creare un corto circuito, lasciando da soli gli “uomini-ponte” e impedendo al dialogo di fare passi avanti. Ogni volta che succede un fatto del genere, il prezzo da pagare sono i “passi del gambero”, cioè uno avanti e due indietro, che compie il processo d’integrazione. In più, c’è un altro problema. Anche nel nostro Paese, esiste purtroppo una “zona grigia” di persone che non danno alcun contributo diretto, positivo o negativo, né alla buona causa dell’integrazione né a quella cattiva dell’integralismo. Non è ampia, ma non ha una valenza totalmente neutra.
 
Si dice che l’omertà sia una coperta che fornisce riparo ai criminali. Ecco, nei luoghi di preghiera e nei centri culturali frequentati da persone di fede islamica può accadere che qualcuno sia in grado di accorgersi del percorso di radicalizzazione intrapreso da un conoscente, un familiare, un vicino. Ebbene, talvolta è accaduto che chi se n’è accorto ha fatto finta di non vedere. “Che male c’è se ha adottato uno stile di vita un po’ radicale, se intraprende viaggi in Paesi come l’Afghanistan o se si lascia andare a discussioni forse troppo accese sulla religione? Non possiamo mica essere tutti uguali”. Atteggiamenti che non contengono nulla di intenzionalmente malvagio né, spesso, di penalmente rilevante. Eppure, essi potrebbero rappresentare un campanello d’allarme, una spia accesa sul cruscotto.
 
E soprattutto potrebbero, se sommati ad altre informazioni, divenire rivelatori dell’inizio di un cammino e costituire elementi utili per chi ha l’oneroso compito di prevenire cospirazioni e attentati. Non si vagheggia il ritorno a uno Stato di polizia, nel quale ciascun cittadino – come accadeva nella vecchia Germania dell’est – debba subire l’ingrato compito di spiare il proprio vicino. Ma, per restringere il campo alle indagini sull’integralismo islamico, non c’è dubbio che talvolta, col solo atteggiamento di indifferenza, col mellifluo e accondiscendente “far finta di non vedere”, con la semplice, banale omertà quotidiana, alcuni – italiani e stranieri, uomini e donne, islamici e non – impediscano che un terrorista venga individuato. Si finisce per offrire, inconsapevolmente e quasi sempre in buona fede, un’imprevista cortina fumogena, dietro la quale gli elementi radicali con propensione alla violenza possono nascondersi. Un mimetismo che consente loro di essere identificati il più tardi possibile. A volte, troppo tardi.

Integrazione senza integralismo

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