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I voti si pesano e non si contano: nel caso di Umberto Bossi viene facile parafrasare il celebre motto di Enrico Cuccia. A maggior ragione dopo le continue punture sul sistema del credito. Dice il Senatùr: «La gente ci dice prendetevi le banche e noi lo faremo».Così sarà, come già è per municipalizzate, Asl e aziende di Stato. Ma non sulla base del 12 per cento di elettori conquistati su scala nazionale, cifra importante ma non decisiva. Stando alle ultime regionali, il Pdl di Silvio Berlusconi conta infatti sul 30 per cento dei consensi mentre il Pd di Pier Luigi Bersani arriva al 26. Senza contare Antonio Di Pietro (7 per cento), Pier Ferdinando Casini (un altro 6) e il corollario di liste e partiti locali e minori (19), per un totale che fa 32. La Lega, su scala nazionale, viaggia dunque intorno al 12. Va da sé che l’88 per cento degli elettori non vota Carroccio. Ma secondo l’interpretazione di stampa e tv, l’intero popolo italiano, Mezzogiorno compreso, anelerebbe l’arrivo delle camicie verdi. Anzi, del suo leader Bossi. Il nuovo Baffone.
La storia è più complessa. È fatta di un grandissimo radicamento territoriale al Nord, che diventa modesto ma crescente nel Centr’Italia ed è totalmente assente al Sud, e tale rimarrà per interessi convergenti della Lega (maldisposta a sporcarsi le mani nel pantano meridionale) e del Pdl (impostosi come il più grande partito del Mezzogiorno). Tuttavia, il Carroccio ha abbondantemente superato l’immagine caricaturale anti-terroni e anti-neri. Da forza contro il sistema s’è fatta sistemica, tanto da imporre issues nazionali quali la sicurezza, la riduzione delle tasse e, non ultime, questioni sociali come il lavoro. Una priorità assoluta per il Bossi «addolcito» dalla malattia.
Sono temi, i suddetti, che interessano tutti, persino i non pochi immigrati che hanno cominciato a sostenere la Lega. E così, «l’Umberto» è uscito dalla enorme nicchia del Settentrione, diventando un soggetto politico nelle regioni rosse, dove  sottrae voti al Partito democratico e pesa elettoralmente più dell’Udc. E fungendo da modello di governo del territorio per le terre meridionali. Soprattutto per quelle più sventurate.
Ma la storia recente della Lega è fatta soprattutto dall’alleanza politica e programmatica con Berlusconi. Che ha appaltato il Settentrione al Carroccio in cambio di fedeltà assoluta al governo, al punto da far revocare al Cavaliere ogni accordo con Pier Ferdinando Casini (prima) Gianfranco Fini (poi) in nome del patto di ferro con il Senatùr. Il quale è apprezzatissimo pure a sinistra, finanche da gran parte della nomenclatura del Pd. Solo i muri del Botteghino, la vecchia sede degli allora Ds, potrebbero raccontare quanto Massimo D’Alema rimpianga la mancata alleanza con le camicie verdi. Quando la propose, l’altra metà del partito gli esplose contro. Una metà che oggi sottace il proprio errore. Ma ora anelerebbe anch’essa un patto con il Carroccio.
E così torniamo al punto di partenza: è in questo contesto che i voti della Lega vanno pesati. Sono voti di piombo. Che fanno di Bossi l’arbitro indiscusso della scienza politica. Le conseguenze sono altrettanto pesanti. Per esempio: con chi parla l’opposizione sulle riforme istituzionali federaliste?Con Berlusconi o uno dei suoi colonnelli?Macchè. Parla con Roberto Calderoli, «il generale Riforma» del Senatùr. E il ministro Giulio Tremonti, con chi concorda le politiche fiscali? Certo, col Cavaliere, ma non senza aver prima sentito «l’amico Umberto». Ancora: chi è il primo referente dei sindacati al Nord? Scordatevi il Pd: ora è il Carroccio. E poi: la chiesa cattolica è sotto attacco? Chi la difende a spada tratta, venendo pubblicamente omaggiata da preti e vescovi? La Lega, ovviamente.
È persino naturale che Bossi ora punti a penetrare il mercato della finanza. Senza infingimenti, con dichiarazioni pubbliche accolte con naturalezza ma che a un esponente di Pd e Pdl mai sarebbero state perdonate (e infatti a Piero Fassino, tanto per citare il caso più clamoroso, non sono state ancora perdonate). Tra l’altro, le banche sono soltanto l’ultimo steep della «presa» dell’economia da parte leghista. È un fenomeno che Panorama ha definito il «Green power».
Corposi avamposti si segnalano in ogni angolo di potere del Nord. Ne sa qualcosa Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario bossiano sugli affari di partito, con qualche indulgenza definito «il Gianni Letta della Lega», uso a lavorare in team con altri tre «colletti verdi»: Francesco Belsito, sottosegretario alla Semplificazione e vicepresidente della Fincanteri; Leonardo Carioni, presidente della Provincia di Como e consigliere dell’Expo; Dario Galli, presidente della Provincia di Varese e membro del cda della Finmeccanica. Prendiamo le municipalizzate lombarde, per cominciare. I leghisti non sono certo pochi. Italico Maffini è consigliere della Lombardia Informatica, Giampaolo Chirichelli è presidente di Finlombarda, Marco Praderio è all’Irer, Bruno Caparini nella A2A, leader nella fornitura di energia in Lombardia. Dopo le regionali, sono postazioni destinate a raddoppiare. Come pure a Milano-città l’influenza leghista aumenterà con il rinnovo di Atm, Metropolitana, Sogemi, Milano Ristorazione. Mentre a Lucio Stanca, per l’Expo di Milano, Bossi vuole affiancare un direttore generale. Verde leghista.
In Veneto, invece, il Carroccio comanda già tanto: trasporti, Asl, immobiliare, energia, fiere. Ma adesso, dopo l’elezione a governatore di Luca Zaia, si aprono pure le partite di 18 partecipate regionali, tra cui Arpav, Veneto Sviluppo e Veneto Innovazione. Quanto a Zaia, come ministro dell’agricoltura ha preventivamente collocato alcuni fedelissimi. Soltanto per citarne quattro: Franco Contarin all’Agea, Walter Brunello a Buonitalia, Tiziano Baggio all’Unire, Nicola Cecconato nei collegi sindacali di Rai Trade e Coni Servizi, oltre che  nell’Istituto sviluppo agroalimentare. È lo «Zaia power».
Sottotraccia ma nutrita è la rappresentanza bossiana nelle società pubbliche statali. «Boiardi verdi» si segnalano all’Eni (Paolo Marchioni), all’Enel (Gianfranco Tosi) alle Poste (Mauro Michielon), in Fintecna (Guido Tronconi), Gse (Giuseppe Maranesi), Inail (Marco Fabio Sartori, unico presidente fra questi). Ora la Lega punta a ottenere qualche altra presidenza, magari tra l’Isvap, Anas, Aiscat e la nascente Agenzia per il nucleare. La Lega atomica.
C’è poi il capitolo grandi opere. A decidere sull’autostrada Serravalle non sarà soltanto Giorgetti ma anche il sottosegretario alle Infrastrutture Bartolomeo Giachino. La nomina toccherebbe alla Provincia di Milano, in mano al Pdl, ma sembra inarrestabile la corsa del leghista Dario Fruscio. La Serenissima è già in mano a un esponente del Carroccio, Attilio Schneck, mentre Leonardo Muraro siede nei consigli di Autostrada Alemagna e Veneto strade. Sono leghisti anche Giuseppe Bonomi, presidente della Sea, e Giorgio Piatti, consigliere dell’Enav.
Ed eccoci alla banche, ultimo desiderio di Bossi, che in Padania significa Fondazioni bancarie, utili a distribuire risorse sul territorio. C’è un unico, grande problema da affrontare: le regole. Per la nomina dei dirigenti delle fondazioni si prevedono norme ferree e non aggirabili, l’ingresso della Lega nel salotto buono richiederebbe anni. Ma una soluzione forse c’è: la riforma della legge sulle fondazioni bancarie tanto cara a Tremonti.
Forse non a caso. Soprattutto se si considerano la vicinanza con Bossi e l’ipotesi che il ministro dell’Economia diventi il candidato premier della Lega nel 2013 dopo aver spedito Berlusconi al Quirinale. Nel frattempo, tuttavia, è scattata la moral suasion sui «non leghisti» presenti nelle fondazioni. È il caso, per esempio, di Luigi Castelletti, vicepresidente vicario della Cassa di risparmio di Torino (terzo azionista dell’Unicredit con il 3,6 per cento). Di palesi simpatie leghiste è invece  Domenico De Angelis, amministratore delegato della Popolare di Novara. In attesa di ricollocazione è poi Francesco Arcucci, ex capo della Credieuronord, la prima banca leghista semifallita e salvata dal «furbetto del quartierino» Gianpiero Fiorani. Più schierato ancora è l’ex prodiano Massimo Ponzellini, cugino di Giorgetti, mentre  tra i banchieri d’affari l’uomo di punta è Marco Baga di Banca Profilo. Quanto alla CariVerona, ha il consiglio in scadenza. E a ottobre sarà leghista. Punto.
Che dire? Nelle ultime settimane molte analisi hanno abusato della similitudine tra la Lega simile e la Democrazia cristiana. Di una Lega, cioè, in prospettiva padrona assoluta della ex finanza bianca del Nord. La Dc era però maggioritaria nel Paese, la Lega lo è soltanto in una parte. E non si limita a penetrare quella. Dunque, più che la Balena bianca, l’esempio più appropriato è quello del Psi di Bettino Craxi. Il quale, con gli stessi voti su scala nazionale, fu arbitro anch’egli di un’altra stagione politica. Si tratta sicuramente di un parallelo sgradito alla Lega. Che farebbe invece bene a tenerlo presente. Va da sé: per evitare gli stessi errori.

Il nuovo gioco del Senatùr

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