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Le prospettive strategico-militari italiane nel contesto europeo vanno valutate nell’ambito dei pilastri cui si ispira ed aderisce la nostra politica estera: l’Unione europea e la Nato. Entrambe le nostre due organizzazioni internazionali di riferimento – la terza, più lontana, è quella delle Nazioni Unite – sono reduci dai due summit che si sono tenuti a Lisbona rispettivamente nel dicembre 2007 e nel novembre 2010. Nel primo è stato rinnovato il Trattato della Ue, poi entrato in vigore il 1° dicembre 2009, mentre nel secondo è stato approvato il nuovo Concetto strategico dell’Alleanza.
 
I due documenti, ispirandosi alle diverse finalità cui rispondono le rispettive istituzioni, hanno tuttavia un sostanzioso impatto sulle nostre scelte in politica estera, che spesso si traducono in azione attraverso l’impiego delle Forze armate o la partecipazione a programmi Nato o europei in termini di politica degli armamenti. Buoni esempi sono le missioni internazionali, come in Afghanistan e, più recentemente, in Libia, o l’adesione ai programmi comuni per la difesa, come le fregate Fremm, i progetti Network centric warfare (Forza Nec) per l’esercito e il caccia F-35 per l’aeronautica e la marina.
 
Non sempre le differenze tra le organizzazioni militari della Ue e della Nato sono chiare al grande pubblico. Ai primi vagiti della neonata Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd) e della conseguente Iniziativa per la difesa europea (Esdi), che sottintendevano la creazione di una forza militare della Ue, l’allora segretario di Stato americano Magdalene Albright condizionò il parere favorevole alle famose tre D: “No duplication, no discrimination, no decoupling”. Nessuna duplicazione o discriminazione e niente sganciamento tra le due sponde atlantiche. Il riferimento, ovviamente, era agli equivoci e agli sprechi cui si sarebbe potuta prestare la nuova organizzazione militare rispetto a quella della Nato. Facile presagio, quello della Albright, tanto che ancora oggi le differenze sono probabilmente esplicite solo agli addetti ai lavori.
 
Per cercare di chiarire, osserviamo, ad esempio, come Nato e Ue affrontino la gestione delle crisi da due punti di vista che spesso differiscono. Il fatto è che le due organizzazioni non si equivalgono, hanno capacità e interessi diversi, ma difendono valori che a grandi linee sono i medesimi. La Nato è un’alleanza militare, e come tale è il principale mezzo per assicurare la solidarietà transatlantica nelle questioni di sicurezza e difesa. L’Unione europea rappresenta una comunità di nazioni che stanno cercando di integrarsi quanto più possibile, a prescindere da quale “forma” prenderà il risultato finale. È ovvio, allora, come un’organizzazione strategica prevalentemente militare ed un’altra, che è soprattutto politica ed economica, non sempre possano avere un identico approccio nella gestione della medesima crisi.
 
Anche le loro capacità differiscono. La Nato dispone di un’efficiente rete di comando e controllo, e quindi, anche se il compito di gestire le crisi piuttosto che la sicurezza comune le è nuovo – datato 1995 – è effettivamente attrezzata per dare alle crisi risposte di tipo militare. La Ue, rispetto alla Nato, ha una struttura militare minima – uno staff di alcune centinaia di persone rispetto alla decina di migliaia dell’Alleanza – e la sua prima reazione di fronte all’insorgere di una crisi sarà innanzi tutto di carattere civile, diplomatico e finanziario, tenendo anche presente, ma non certo come prioritaria, l’ipotesi militare. Le regole del consenso sono le stesse, ma, mentre nella Ue c’è un sostanziale equilibrio di forze, nella Nato una sola nazione, gli Stati Uniti, ne fornisce all’incirca il 50% e, logicamente, finisce per “pesare” di più.
 
I valori fondamentali, come la democrazia, la libertà e il rispetto dei diritti umani ovviamente sono gli stessi, ma è anche logico che il pubblico europeo, che ha conosciuto sul proprio territorio i lutti e le devastazioni di due guerre mondiali, sia spontaneamente meno incline alle soluzioni di tipo militare. Fatta chiarezza sulle differenze, vi è anche da dire che, nell’essenziale, il terreno in comune è destinato a rimanere assai ampio anche in prospettiva. Le forze, a parte Stati Uniti e Canada, sono le stesse. Avendo quelle europee i medesimi standard operativi e addestrativi adottati dalla Nato e la medesima dottrina, il grado di interoperatività è elevato. Entrambe queste forze, sia che operino sotto il cappello Nato sia sotto quello Ue, sono in grado di integrare nelle operazioni contingenti europei o asiatici di Stati non membri, ma che operano con standard assimilabili.
 
In realtà, Ue e Nato sono complementari, né sembrerebbe corretto fare distinzioni tra “soft power” europea e “hard power” americana. È una duplicità che conferisce la massima flessibilità. Dove l’una fallisce, può subentrare l’altra. Gli obiettivi di base in termini di risultato finale, in effetti, continueranno ad essere gli stessi.
Per quanto riguarda le prospettive del nostro Paese in questo contesto, le nuove cooperazioni rinforzate ne stanno talvolta appannando il contributo decisionale, salvo richiederci poi un supporto di rilievo sul piano militare, come accaduto per la campagna di Libia. Secondo Michele Nones, uno dei nostri massimi esperti in materia di sicurezza e difesa, gli accordi bilaterali, come quello siglato l’anno scorso tra Francia e Gran Bretagna, stanno modificando il quadro di riferimento europeo e condizionano l’intero processo di integrazione.
 
È su questo fronte che in prospettiva dobbiamo strategicamente riguadagnare il terreno perduto, tenendo anche in conto che nel prossimo summit della Nato (Chicago, 20 maggio 2012) gli Stati Uniti dichiareranno una maggiore priorità dei propri interessi strategici verso l’Asia piuttosto che verso l’Europa.

Sovrapposizioni pericolose

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