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“Più a lungo aiutiamo l’Ucraina, più a lungo stiamo fuori dalla guerra”, queste parole che risuonano tanto attuali sono null’altro che una parafrasi della frase che Henry Morgenthau, allora segretario al Tesoro americano dell’amministrazione Roosevelt, pronunziò nel novembre del 1940, non naturalmente con riferimento all’Ucraina, che era parte dell’Unione Sovietica, ma della Gran Bretagna. Com’è noto, subito dopo, ovvero nel dicembre del 1940, gli Stati Uniti lanciarono il celebrato programma di supporto Lend & Lease che prevedeva forniture di armamenti a favore dell’alleato inglese.

Desidero condividere alcune riflessioni sulle conseguenze economiche del tragico conflitto sul terreno militare iniziato un anno fa fra Russia e Ucraina. Lo farò analizzandone origini e conseguenze economiche e prendendo in esame il ruolo degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che sono non tanto spettatori ma soggetti partecipanti al conflitto seppur dall’esterno.

Anzitutto, per quanto riguarda le origini economiche nel pianificare l’invasione dell’Ucraina agli inizi del 2022, oltre ai noti motivi più squisitamente geopolitici e geostrategici, il presidente russo Vladimir Putin ha pensato molto probabilmente che, da una parte, la Russia stava già beneficiando a piene mani dell’aumento repentino e vorticoso dei prezzi delle materie prime in atto già dall’autunno 2021 e, in particolare, di quelle direttamente legate alla produzione di energia, come gas e petrolio, di cui essa è assai ricca, e che, dall’altra, poteva contare su una reazione blanda o tardiva dell’Unione europea, che stava affrontando tutte le difficoltà economiche e sociali legate alla ripresa post-pandemica. D’altro canto la reazione all’invasione russa dell’Ucraina soprattutto da parte dell’Unione europea, in coordinamento con i Paesi del G7 e l’Australia, è stata più rapida e vigorosa e si è sostanziata nella definizione e nell’applicazione di una serie di sanzioni economiche e finanziarie alla Russia (restrizioni all’importazione e all’esportazione di prodotti e servizi, fra cui gas e petrolio, tetto ai prezzi del petrolio russo, fissato a 60 dollari al barile, blocco per dieci banche russe e quattro bielorusse all’effettuazione e alla ricezione di pagamenti internazionali utilizzando il sistema Swift e divieto assoluto per le banche centrali e commerciali di eseguire operazioni con la Banca centrale nazionale russa). Occorre precisare che sanzioni ed embarghi economici hanno storicamente funzionato molto poco o hanno avuto esito esiguo, dal momento che hanno quasi sempre provocato un effetto contrario e, talora persino negativo, per i paesi sanzionatori. Ovvero quello di incentivare la ricerca di vie alternative per aggirarli e l’identificazione di possibili paesi acquirenti surrogati, che potessero avvicendare quelli precedenti per sostituire la domanda delle forniture oggetto di embargo. Nel caso speciale, la Russia ha provveduto, pur a prezzi scontati, a sostituire con la domanda proveniente da India e Cina le forniture in petrolio e gas in precedenza erogate a Germania, Italia, Spagna e ad altri paesi europei. Mentre il sistema bancario di pagamenti (cosiddetto Swift) viene aggirato tramite l’utilizzo di circuiti alternativi di pagamento (come lo Spfs).

Al contempo, dei problemi economici inflattivi dovuti soprattutto all’aumento delle tariffe e dei prezzi delle materie prime (in particolare dei prodotti legati all’energia e agli alimentari) e della conseguente drastica impennata dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea, che i Paesi dell’Unione europea affrontano oggi intensamente, risentono molto di meno gli Stati Uniti, che hanno legami commerciali molto meno stretti con la Russia e sono dotati di considerevoli risorse naturali, ingenti riserve e tecnologie estrattive avanzate.

Secondo quanto ha affermato Niall Ferguson lo scorso autunno, peraltro gli Stati Uniti hanno sin qui fornito all’Ucraina armi sufficienti per non perdere la guerra ma insufficienti per vincerla. E naturalmente ne risente di meno anche la stessa Russia che, nel 2022, ha visto il suo prodotto interno lordo crescere (in miliardi di dollari, ovvero a prezzi correnti e a parità di potere d’acquisto), superando quello italiano, e piazzando Mosca fra le prime dieci maggiori economie mondiali. Naturalmente, occorre altresì considerare che, nel frattempo, il tasso di inflazione annuo russo ha superato il 13%.

Per tali motivi, fatti salvi i continui tentativi di dissuasione economica e diplomatica, non appare oggi agevole pensare che l’Unione europea possa giocare un ruolo di primo piano nella ricerca di soluzioni di pace; eppure essa sembra invece ben posizionata per ricoprire un ruolo di rilievo nella ricostruzione postbellica dell’Ucraina, che si spera possa iniziare in tempi sufficientemente brevi a seguito dell’esaurimento delle operazioni militari sul campo. In tal senso, il lancio di un Fondo monetario sovrano europeo, proposto recentemente al meeting internazionale di Davos da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, potrebbe rivelarsi vitale in coordinamento con gli interventi finanziari da parte della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e della Banca mondiale.

Quale ruolo per l’Ue in Ucraina tra guerra e ricostruzione? Risponde Dagnino (Lumsa)

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Il lancio di un Fondo monetario sovrano europeo potrebbe rivelarsi vitale in coordinamento con gli interventi finanziari da parte della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e della Banca mondiale. L’intervento di Giovanni Battista Dagnino, ordinario di Economia e gestione delle imprese, presidente del corso di laurea magistrale in Economia e Management all’Università Lumsa Palermo

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