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Giuseppe Pennisi ci ha lasciato, circondato dall’affetto dei suoi cari, la vigilia di Pasqua. Combatteva da anni, con coraggio e serenità, contro la terribile malattia che non gli ha dato scampo. Nell’annunciare il suo decesso, la famiglia ha voluto ricordarlo per ciò che era stato e aveva fatto “da uomo dal pensiero libero e aperto al mondo”. E Formiche ha già rispettato questa richiesta nell’articolo della redazione.

Quando ha capito che gli restava poco tempo Giuseppe ha inviato agli amici questo messaggio di commiato: “Da alcuni giorni le mie condizioni di salute sono molto peggiorate. Passo praticamente le giornate a letto. Sono assistito oltre che dalla famiglia, da un badante, un infermiere ed un medico. Non scrivo quasi più. Quando verrà l’uomo del SETTIMO SIGILLO non chiederò di fare una partita a scacchi. Grazie per l’amicizia e l’affetto che mi avete sempre mostrato”.

Ho incontrato per l’ultima volta Giuseppe – che conoscevo e frequentavo da tanti anni, per amicizia, stima e interessi comuni – il 12 dicembre scorso, quando, con molta fatica, è venuto, insieme alla moglie Patrice, alla presentazione romana del mio ultimo libro: “L’altro 1992. Quando l’Italia scoprì le riforme”. E in quell’occasione mi fece omaggio del suo ultimo lavoro “Musica e non solo”, in cui aveva raccolto tutti gli scritti, dal 2011 al 2020 dedicati al suo amore per la musica.

Quando avuto notizia della sua morte non ho potuto fare a me di pensare ad una pagina delle Storie di Erodoto dove si racconta di un viaggio che portò Solone, il grande saggio dell’antichità, in Lidia. Colà, Creso, il sovrano che per antonomasia è divenuto il simbolo della ricchezza più sfrenata, mostrò al saggio tutti i suoi averi, gli ori, i gioielli, gli schiavi, i campi di grano, gli armenti e le mandrie. Poi, tronfio per l’esibizione del suo patrimonio, il re chiese a Solone chi, a suo avviso, fosse l’uomo più ricco e felice della terra. Solone non “fece una piega”. Come se quei tesori non gli fossero stati neppure mostrati, rispose: “l’uomo più felice della terra è il mio vicino di casa: Tello l’ateniese”. Creso rimase di sasso. Adirato e offeso, volle sapere da Solone chi mai fosse questo “Mario Rossi” di quel tempo e per quale motivo fosse ritenuto da lui l’uomo più felice della terra. Il saggio rispose che era stata una persona perbene, che aveva avuto e cresciuto molti figli e nipoti, che aveva preso le armi per difendere la sua città e che, invecchiato con serenità, era deceduto tra l’affetto dei suoi cari ed amici. E aggiunse che la vita di un uomo la si giudica alla fine; e che questa regola valeva anche per i sovrani. La storia di Erodoto ha un seguito; ma per ricordare, come merita, Giuseppe Pennisi posso fermarmi qui. Di lui ho già detto tutto.

Capita alla mia età di salutare tanti amici che si incamminano lungo l’ultimo sentiero. Dicono che sia fiorito e ombreggiato. È di consolazione sapere che tra poco ci ritroveremo tutti, in un angolo appartato dei Campi Elisi, a parlare dei nostri tempi.

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Vi racconto il mio amico Giuseppe Pennisi. Scrive Cazzola

“Conoscevo e frequentavo Giuseppe da tanti anni, per amicizia, stima e interessi comuni”. Per ricordarlo come merita Giuliano Cazzola ricorre ad una pagina delle storie di Erodoto…

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“Non nascondiamocelo: in Israele è messo in discussione il diritto a esistere e a difendersi, non è accettabile dal punto di vista morale e geopolitico. Il Piano Mattei? Strategico, nella consapevolezza che è necessaria una cooperazione non predatoria. L’Italia? Collegamento naturale fra le varie culture, esigenze e le differenti sensibilità”. Conversazione con il vicepresidente del Copasir

Giuseppe Pennisi

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