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Non è vero che la storia sia sempre maestra di vita, come sostenevano gli antichi romani. Ad analizzare le decisioni di molti governanti odierni verrebbe da pensare che lo studio del passato non sia tra le materie più apprezzate nelle alte sfere. Nemmeno la storia della politica estera che, pure, dovrebbe rappresentare la lettura più appassionante per premier e ministri vari, sembra interessare più di tanto. E le conseguenze si vedono.

Per un Henry Kissinger che ha sempre cercato e indicato negli atti politici dei secoli scorsi la bussola per orientarsi nelle rotte del nostro tempo, ci sono legioni di leader e presidenti che, oltre a non conoscere le vicende di ieri, ignorano anche i rivolgimenti di oggi, e spesso non hanno idea della storia che fanno e delle conseguenze che le loro scelte determinano.

Esaminiamo il caso della Cina, il cui bacino d’influenza nel mondo si va allargando come una balena. Non è solo merito della strategia di attrazione di Pechino e delle sue multinazionali se molti Paesi, non solo africani, si stanno trasformando in colonie del Dragone asiatico. Molto è dipeso e dipende tuttora dalle decisioni, ora miopi ora affrettate ora autolesionistiche, adottate dall’Occidente.

La questione energetica è centrale, paradigmatica. Se per molti decenni l’America è riuscita a contenere l’avanzata sovietica in Africa, dove Mosca cercava di piantare il sentimento anti-occidentale e anti-capitalistico seminando le parole d’ordine ideologiche contro lo sfruttamento delle risorse da parte di Usa ed Europa, la causa va ricercata nell’ovvia constatazione che solo le nazioni avanzate potevano acquistare in grande quantità il petrolio e le altre ricchezze giacenti nel sottosuolo di molte nazioni arretrate. Ad esempio: a chi avrebbero venduto l’oro nero, l’Arabia Saudita o l’Iran, se non ai Paesi e ai colossi industriali occidentali, gli unici in grado di fare acquisti in pompa magna e di pagare il prodotto senza tirare molto sul prezzo? Di sicuro, non avrebbero potuto vendere il petrolio all’Urss, o alla Russia attuale. Uno, perché la Russia è già di per sé un maxi-produttore e un super-distributore di carburante. Due, perché, in ogni caso, la Russia non avrebbe mai potuto importare grosse quantità di greggio, alla luce della sua modesta rete di imprese e del suo limitato Prodotto interno lordo (Pil). Ergo, le nazioni africane e mediorientali si sono trovate nella condizione obbligata di dover interloquire, per lo più, con i facoltosi acquirenti occidentali. Il che ha garantito all’America e all’Europa un peso anche politico nelle aree strapiene di petrolio e nel resto del mondo in via di sviluppo.

Usa ed Europa avrebbero dovuto preservare con maggiore cura i vantaggiosi rapporti con gli stati carichi di fonti energetiche naturali. E per un prolungato periodo di tempo si sono attenuti a questa regola, escludendo di fatto Russia e Cina dal gioco geopolitico intercontinentale. Ma non appena, sull’onda della lotta al cambiamento climatico, ha preso corpo l’idea della riconversione energetica a tutti i costi, il quadro si è ribaltato. Abbasso petrolio e carbone. Evviva l’economia verde. E quando i Paesi esportatori di petrolio hanno cominciato a guardarsi attorno in cerca di nuovi cospicui compratori per il futuro, la Cina non si è lasciata sfuggire l’occasione, candidandosi immediatamente a investitore subentrante di Stati Uniti ed Europa nelle sterminate regioni africane. Che, a loro volta, hanno gradito assai offerte e profferte: a chi avrebbero, altrimenti, piazzato i loro barili di greggio se non alla Cina, visto che l’Occidente aveva deciso di divorziare dai carburanti tradizionali e di sposare l’auto elettrica, a sua volta fondata, per parecchi componenti essenziali, sui metalli rari per giunta posseduti e controllati soprattutto dal gigante giallo?

La recente riuscita mediazione cinese tra Iran e Arabia Saudita, due Paesi che, fino a ieri, erano più bellicosi, tra loro, di due tifoserie calcistiche ultrà in un derby da scudetto, è figlia del nuovo scenario rappresentato dall’esordio cinese dopo il pluridecennale quasi esclusivo protagonismo americano. E siccome, in politica, come in altre discipline, gli spazi vuoti non resistono a lungo, perché prima o poi, provvederà qualcuno ad occuparli, oggi grazie al mix tra riconversione industriale e rivoluzione ambientale, un intero continente si ritrova nell’orbita di Pechino.

Intendiamoci. L’energia pulita è il futuro dell’umanità, guai a sabotarne l’utilizzo. Ma c’è modo e modo per raggiungere l’obiettivo di disinquinare il pianeta. Uno, perché a bonificarlo da soli, si corre il rischio di disinquinare un bel nulla, di favorire i concorrenti ancora fermi alle risorse tradizionali e di autopunirsi con pratiche tafazziane. Due perché, così facendo, cioè accelerando i tempi della profilassi ecologica senza il concorso corale, di tutti i Paesi del pianeta, verso l’ammodernamento del sistema industrial-residenziale, si corre il rischio di assestare un colpo micidiale alla sovranità economica e politica di numerosi stati. Con pesanti contraccolpi sul presente e sul futuro di una vasta area geografica, nel nostro caso, dell’Occidente libero.

Ecco perché l’Unione europea dovrebbe rivedere la decisione di assegnare solo all’energia elettrica il privilegio di alimentare il motore delle auto. In un’Unione fondata sui princìpi della concorrenza la strada da seguire avrebbe dovuto essere un’altra: stabilire gli standard di sostenibilità ambientale e affidarsi alla competizione tra le diverse opzioni energetiche in campo. Chi supera i limiti delle emissioni inquinanti è fuori legge. Chi li rispetta, può produrre energia.

Aver preteso di sapere in anticipo, in Europa, qual è l’unica via più conveniente per la bonifica ambientale, rischia di rivelarsi fatale su due fronti: economico e politico. La storia lo insegna: nessun pianificatore possiede tutte le informazioni per decidere al meglio, nessun pianificatore sa come evolveranno la ricerca e i consumi dell’avvenire. Perché, allora, rischiare di impiccarsi a una soluzione che, col tempo, potrebbe rivelarsi superata o sbagliata? Per fortuna l’Ue, sia pure a fatica, sta riflettendo sulla materia, e sulle decisioni già prese. La Germania è riuscita ad ottenere che alle auto elettriche (obbligatorie dal 2035) si possano aggiungere le vetture con motori e-fuel (carburanti sintetici composti da idrogeno e anidride carbonica). Ora è necessario che l’Italia insista, non molli la presa per far ripescare anche i biocarburanti (prodotti dalle biomasse, da scarti provenienti dall’industria agroalimentare tipo mais, colza, girasole, e dai rifiuti organici). È indispensabile che l’Europa riveda la precedente direttiva, limitandosi solo, come già accennato, a fissare i limiti delle emissioni nocive. Poi ciascun automobilista sceglierà l’auto con il modello di alimentazione a lui più congeniale. L’importante è che non si avveleni l’aria.

Bisogna evitare di diventare subalterni di un unico fornitore di materie prime, visto che la posta in gioco non è individuale, semmai collettiva. È in ballo la sovranità dell’Occidente. E anche la sua libertà.

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