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La riammissione della Siria di Bashar al Assad nella Lega Araba è passata quasi inosservata, complice l’enormità di altri disastri internazionali, come l’aggravarsi del guerra in Ucraina. Eppure l’avvenimento meritava un’attenzione diversa e padre Giovanni Sale, sul nuovo quaderno de La Civiltà Cattolica, riesce a spiegare perché la svolta araba dopo dodici anni di conflitto, centinaia di migliaia di morti, distruzioni epocali, sparizioni sistematiche, prosecuzione del conflitto in zone circoscritte ma rilevanti del Paese, deportazioni di massa e permanente indisponibilità a qualsiasi  riforma del sistema autocratico può rivelarsi una capitolazione della politica araba al sistema ricattatorio creato da Damasco, con rilevanti ripercussioni sul sistema mondiale. L’analisi è rigorosa, non cede a partigianerie per partito preso, ma arriva grazie a una ricapitolazione degli eventi più rilevanti dell’attualità politico-militare-economica a individuare il punto di crisi della scelta araba. L’autore ci conduce per mano nella comprensione politica della scelta araba, fondata su tre emergenze: la connessione con i pasdaran iraniani, i milioni di deportati siriani che destabilizzano la regione e l’enorme produzione della nuova droga, il captagon, con cui la Siria invade l’area. La speranza che Assad muti indirizzo su queste tre linee di fondo ha guidato gli arabi. Il leader siriano rinuncerà alle tre armi che gli hanno consentito di riemergere? Appare una speranza, ma forse irragionevole. Questo ragionamento è illuminante e va compreso a fondo, quindi ricostruito.

Il primo punto è questo: la riammissione nella Lega araba ha un valore politico-formale. E’ come essere riammessi all’Onu per un regime che ne sia stato in precedenza espulso. Dunque chi è rientrato nella salotto buono degli arabi?  “È noto che Assad, per mantenersi al potere, in questi anni ha usato metodi brutali. Più di 300.000 cittadini siriani sono morti a causa di attacchi con missili e armi chimiche (come denunciato da inchieste delle Nazioni Unite). Inoltre, l’apparato di sicurezza siriano in questi anni ha catturato decine di migliaia di dissidenti politici, che non erano terroristi. Tutto questo è stato portato avanti metodicamente con l’aiuto degli alleati iraniani e, a partire dal 2015, dei russi, che in Siria hanno sperimentato i metodi di guerra più distruttivi. Il ritorno in scena del Presidente, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, mette in crisi l’intero sistema dei diritti e delle sanzioni che l’Occidente ha costruito dalla Seconda guerra mondiale fino alla recente incriminazione di Putin per la deportazione dei minorenni ucraini. Questa riabilitazione di Assad da parte dei Paesi arabi, e non soltanto, pone dei problemi di ordine politico, giuridico e morale sulla reale efficacia, nel lungo periodo, del sistema sanzionatorio finora adottato dalla comunità internazionale nei confronti dei dittatori che commettono crimini gravi contro il loro popolo”.

Avviata dagli Emirati Arabi Uniti anni fa, la politica della mano ad Assad è stata infine condivisa dai sauditi, che ha condotto all’invito al presidente siriano al recente summit di tutti i capi di stato e di governo arabi, da cui era stato espulso nel 2011. Per coprire l’evento è stato a sorpresa invitato al summit il presidente ucraino Zelenski, che ha richiamato l’attenzione dei media: “L’evento è stato strategicamente studiato e voluto dall’Arabia Saudita e dal suo leader, il principe Mohammad bin Salman, per rientrare nel gioco della grande politica internazionale e per riabilitare il summit”. Non più compresa dagli Stati Uniti dai tempi di Obama, Riad ha oggi un nuovo corso: si allinea con la Russia per quanto riguarda i suoi interessi in materia di idrocarburi, con gli americani per armamenti e sicurezza e con la Cina per le questioni commerciali e diplomatiche. Il vecchio matrimonio con Washington è rimasto, ma in un contesto poligamico, e la favorita domani potrebbe essere Pechino.

È in questo contesto politico che si inquadra la questione siriana. L’Occidente, almeno ufficialmente, rimane avverso a Damasco, al quale chiede l’applicazione delle risoluzione 2254 dell’Onu, che risale al 2015,  che chiede “cessate il fuoco totale, libere elezioni, rinnovo della Costituzione”, mai seguita da Assad. Ma il tempo passa, gli arabi avvertono l’urgenza di mutare il quadro. Citando importanti opinioni, padre Sale rileva che per molti “ il riavvicinamento è motivato dalla strategia di allontanare l’Iran dalla Siria o di indebolirne l’influenza politica. In effetti, dopo aver fatto affidamento per anni sul sostegno militare iraniano, la Siria è ora una base per il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e altri gruppi armati legati all’Iran. La loro presenza è considerata dannosa e inquietante per i Paesi sunniti dell’area, in particolare per l’Arabia Saudita e la Giordania. Al momento, pare alquanto improbabile che Assad si liberi delle forze che lo hanno tenuto al potere e sono ancora disposte a combattere per lui.

L’Iran è ben radicato in Siria, e il rapporto tra i due regimi è troppo profondo e solido perché Damasco possa disfarsene per compiacere il fronte sunnita, senza avere nulla di sostanziale in cambio. Il riconoscimento formalmente ottenuto dal regime siriano con la sua ammissione alla Lega araba e il suo riavvicinamento con alcuni Paesi è per Assad insufficiente per prendere le distanze da Teheran e dagli altri Paesi vicini all’Iran. Il legame tra i due Paesi è stato riconfermato con una visita, nel mese di aprile, del presidente Ebrahim Raisi a Damasco”. L’articolo cita anche altre letture in buona parte compatibili con questo quadro, come l’urgenza di uscire dai conflitti in Yemen e Siria, per dedicarsi a progetti di sviluppo, creando un quadro post-conflittuale.

Possiamo passare agli altri due punti della questione: i deportati e il captagon. Sui siriani deportati dalla Siria, a costretti a fuggire, ai quali si aggiungono i molti costretti in campi profughi interni, padre Sale scrive che “sarebbero circa 2 milioni (su una popolazione di 5 milioni) in Libano – un Paese molto fragile dal punto di vista politico ed economico –, e altrettanti in Giordania. In Turchia sarebbero quasi quattro milioni. Negli ultimi tempi, soprattutto durante l’ultima campagna elettorale, gli umori della popolazione e della classe politica sono cambiati nei riguardi dei profughi siriani, ritenuti un fattore di destabilizzazione nazionale. In realtà, già da tempo Erdoğan parla di una loro ricollocazione in territorio siriano, e per questo aveva anche minacciato, dopo un attentato terroristico a Istanbul, incursioni militari nelle zone di confine. A questo riguardo, va sottolineato che non tutti i profughi che in seguito alla guerra hanno abbandonato la Siria sono disposti a ritornarvi. Nei vari Paesi dove ci sono rifugiati siriani, molti di essi sono riusciti a costruirsi una vita dignitosa, come quelli che sono arrivati in Europa”.

Va aggiunto che anche in Giordania e Libano l’aria nei loro confronti è la stessa. Ma non ci sono le condizioni di sicurezza per il loro rientro: “ essi sarebbero disposti a ritornare nella loro patria qualora il regime facesse riforme importanti sia politiche sia economiche. Il che al momento non sembra affatto previsto. Assad e il suo entourage non sono disposti ad abbandonare le redini del potere (tanto più che sono convinti di aver vinto la guerra civile), né a indire libere elezioni con la partecipazione di diversi partiti”. Assad cambierà linea, per alleviare le pene di Libano, Turchia e Giordania? Padre Sale cita il grande scrittore siriano, Yassine al Haj Saleh: “Purtroppo i sostenitori della normalizzazione non si sono presi la briga di dire una parola sulla sorte delle 11.000 persone scomparse; sul ritorno in sicurezza dei profughi da diversi Paesi”. E’ proprio così.

Dopo aver ricordato che Assad e tutti i siriani sanno perfettamente che le faraoniche promosse russe di investimenti per ricostruire la Siria (bombardata in gran parte dai russi ai tempi della guerra all’Isis combattuta dagli americani) resteranno lettera morta e quindi l’economia che seguitare a precipitare, passa a occuparsi della terza emergenza, il captagon, e dei suoi enormi proventi illegali: “La Siria è il principale produttore mondiale di Captagon, un’anfetamina che si vende a basso costo ed è molto usata nei Paesi del Golfo. Le autorità degli Emirati Arabi Uniti nel 2020 hanno sequestrato 36 milioni di compresse, nascoste all’interno di una spedizione di cavi elettrici. L’Arabia Saudita, l’anno successivo, ha sequestrato più di 20 milioni di pillole in un carico di pompelmi; così pure la Giordania e altri Paesi. Secondo alcuni analisti, attraverso la droga per anni la Siria ha cercato di ricattare gli altri Paesi del mondo arabo e la sua recente riabilitazione ha come scopo, tra gli altri, quello di bloccare il traffico illegale di questa anfetamina. Se viene lasciato “isolato”, si è detto, il regime di Assad può rappresentare una minaccia per tutto il mondo arabo. È una tesi da non sottovalutare, considerando il danno che l’uso di tale droga sta provocando sulle nuove generazioni di quei Paesi. Ma va anche detto che, se questa analisi è vera, si riconoscerebbe ad Assad un’arma di ricatto molto potente (un po’ come i migranti nel caso di Erdoğan in Turchia): egli, infatti, potrebbe in questo momento arginare il flusso di Captagon, ma potrebbe facilmente riattivarlo in caso di richiesta di ulteriori concessioni nei confronti dei Paesi Arabi”. Il testo prosegue, indicale conseguenze mondiali della scelta compiuta, ma il probabile smacco arabo è qui.

Assad ha tre armi proibite. La riabilitazione secondo Civiltà Cattolica

Secondo alcuni analisti, attraverso la droga per anni la Siria ha cercato di ricattare gli altri Paesi del mondo arabo e la sua recente riabilitazione ha come scopo, tra gli altri, quello di bloccare il traffico illegale di anfetamina. Se viene lasciato “isolato”, si è detto, il regime di Assad può rappresentare una minaccia per tutto il mondo arabo. È una tesi da non sottovalutare, considerando il danno che l’uso di tale droga sta provocando sulle nuove generazioni di quei Paesi

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