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L’alba del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca lascia intravedere quattro anni intermittenti, come i lampeggianti delle ambulanze, durante i quali gli americani e il mondo non avranno il tempo di annoiarsi. In una cosa il quarantasettesimo (e già quarantacinquesimo) presidente degli Stati Uniti mette già d’accordo tutti, fanatici sostenitori e allarmati oppositori, individualisti indifferenti con rendite assicurate e passionarie dei diritti civili: tutti si aspettano molto da lui. Le Trump truppen che mantenga le promesse, in primis quelle di cacciare gli immigrati clandestini, di abbandonare al proprio destino l’Ucraina costringendola a subire la mortale pax russa, ma anche di bloccare a colpi di dazi la concorrenza commerciale della Cina e dell’Europa. Il Partito democratico e gli anti Trump sperano che vada a sbattere prima possibile senza eccessivi disastri sui suoi stessi azzardi e sia costretto a dimettersi.

Secondo una costante tradizione politica, tornato a sedersi nello Studio Ovale, Trump deluderà gli uni e gli altri, procedendo a zig-zag fra le urgenze dell’economia nazionale e internazionali e il bilanciamento di una politica estera che non può prescindere dall’Inghilterra, dalla Nato e dagli alleati occidentali: europei, asiatici e latino-americani. Una Trump storm imprevedibile e ricca di colpi di scena, ma nel solco del ruolo mondiale assunto dagli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Meno stabili potrebbero essere invece i rapporti interni della nuova amministrazione col Congresso e a sorpresa anche con la Corte Suprema. Senza considerare l’ingombrante incognita Elon Musk, attorno al successore di Joe Biden, e di sé stesso, la tensione istituzionale è alta, spiegano The Economist e il New York Times.

Ai profondi contrasti tra il presidente della Camera, Mike Johnson, e il leader della maggioranza al Senato, John Thune, che mettono a rischio l’esordio della presidenza Trump, si è aggiunto l’orgoglioso sussulto di indipendenza della Corte Suprema, finora espressasi con un rapporto di sei a tre a favore dei conservatori. Il 9 gennaio la più alta ed inappellabile corte della magistratura federale americana ha scelto di non bloccare la condanna di Trump da parte di un tribunale di New York per la falsificazione di documenti sui pagamenti occulti all’attrice pornografica Stormy Daniels. “L’influenza dei tribunali in questo mandato dipenderà dalle specifiche questioni”, afferma Ilya Shapiro del Manhattan Institute, che aggiunge di ritenere “improbabile che il nuovo presidente riesca ad aggirare o indebolire leggi a lui sgradite”. E soprattutto, aggiunge l’Economist, “a far avallare certi suoi propositi inequivocabilmente incostituzionali, come il rifiuto della cittadinanza americana ai bambini nati negli Stati Uniti da immigrati illegali”.

Da non sottovalutare anche il marasma politico che sta caratterizzando il Congresso, dal quale dipendono molte delle scelte presidenziali. I repubblicani controllano il Senato con l’esile maggioranza di 53 seggi su 100, mentre alla Camera dei Rappresentanti la situazione è ancora più traballante con una maggioranza di soli due seggi. La più ristretta dagli anni del primo mandato di Franklin Delano Roosevelt, nel 1935, il che trasforma in un rebus ogni votazione.

Il primo scoglio congressuale emergente è la perentoria richiesta di estendere il taglio delle tasse, che destabilizzerebbe il bilancio federale, sollecitata dall’ala della destra più estremista del Partito repubblicano, capeggiata dalle senatrici Susan Collins e Lisa Murkowski, le quali come “preavviso” hanno votato contro la nomina di Pete Hegseth come segretario alla Difesa. Il tutto in un contesto caratterizzato dall’imprevedibilità cronica di Trump che, sottolinea il New York Times, spesso cambia idea influenzato dalla televisione o dall’ultimo che incontra, creando incertezza tra i gli eletti repubblicani, che non sanno mai se aspettarsi il suo sostegno o una critica feroce. Fortunatamente, la struttura del sistema politico americano è solidamente incardinata in modo tale da impedire un controllo totale da parte di una singola figura o istituzione. Anche per un presidente polarizzante come Trump.

L’imprevedibiltà inciderà maggiormente nei rapporti internazionali: dal braccio di ferro con la Cina per la supremazia economica e militare nell’indo Pacifico, alla contrapposizione con l’Iran per impedire agli ayatollah di dotarsi di ordigni nucleari e stroncare le trame del terrorismo islamico finanziato e coordinato dai pasdaran. Dal nervosismo di Vladimir Putin si intuisce che il presidente russo non confidi più come prima nel ritrovato sodalizio col tycoon per tirarsi fuori dai guai della fallita invasione dell’Ucraina. Nell’Europa che attende con trepidazione di conoscere la direzione del cambio di passo di Washington, soltanto due Paesi confidano e ricambiano la fiducia dell’alleato americano: il Regno Unito di Sir Keir Starmer e l’Italia di Giorgia Meloni. A differenza del salto nel buio dell’inizio del primo mandato, l’insediamento del due volte non consecutive presidente degli Stati Uniti rappresenta comunque la madre di tutte le svolte. Una presidenza tutta da riscoprire, una sorta di stress test per la democrazia americana, alle prese con un domani chiamato Trump.

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