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Per il povero Piero Gobetti (1901-1926) il Fascismo era l’autobiografia della nazione. Per Mino Maccari (1898-1989) i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti. Se ne possono citare a iosa frasi, più o meno d’autore, che associano, anche oggi, il Belpaese alla mentalità del ventennio mussoliniano. Il che sta a significare che quella stagione illiberale non fu una parentesi delimitata, priva di conseguenze. Non a caso se ne discute un giorno sì e l’altro pure.

Ma come se ne discute? Il più delle volte si utilizzano i fatti del passato per regolare alcuni conti del presente o per interpretare “ad usum delphini” le vicissitudini del momento. A dimostrazione che, spesso, la storia viene concepita come il più classico instrumentum regni, ossia come il più raffinato mezzo di orientamento dell’opinione pubblica per fini politici immediati o futuri. Che sia soprattutto questo il retro-pensiero che spinge parecchi politici e opinionisti a denunciare il pericolo di un risveglio fascista, lo si rileva dalla constatazione che oggi si fa poco o punto per liquidare sul serio l’eredità della dittatura in diversi ambiti dell’agire umano: a iniziare dalla giustizia. E se si fa poco per disboscare un ordinamento che ancora si basa sul Codice Rocco, significa che la declamazione prevale sulla sostanza e che la recita annulla la sincerità di intenti. Alle spicce: è inutile e, a volte, addirittura beffardo invocare solo prese di distanza verbali nei confronti della dittatura ducesca. Una dichiarazione di rottura o una dissociazione non si negano a nessuno, salvo, dal giorno dopo, lasciare il mondo inalterato fino al successivo polverone giornalistico. Quello che serve è altro.

Il distacco dal Fascismo non va preteso soltanto in tv, sui quotidiani o sui social. Il distacco dal Fascismo va preteso e completato soprattutto nelle leggi e nei codici della giustizia. Anche il settore dell’informazione è tuttora condizionato dalle direttive autoritarie del regime che fu. Prendiamo la figura del direttore responsabile di un giornale, su cui pende la spada di Damocle della “responsabilità colposa”, una volta “responsabilità oggettiva”, anche per la più piccola imprecisione pubblicata. Fu proprio la legge sulla stampa del 31 dicembre 1925, compresa nel giro di vite delle cosiddette “leggi fascistissime” varate per tacitare definitivamente le opposizioni insorte dopo il delitto Matteotti, a sancire il principio della responsabilità oggettiva (per tutto ciò che viene pubblicato sul giornale) del direttore, principio poi confermato nel nuovo Codice penale (1930). L’obiettivo di Mussolini era chiaro: costringere il direttore ad attenersi scrupolosamente alle veline del regime, a controllare minuziosamente ogni virgola degli articoli scritti dai suoi redattori, altrimenti, in caso di dissonanza, avrebbe rischiato di pagarne, lui, lo scotto sul piano giudiziario. Il fine del tiranno era squisitamente politico o, più precisamente, di potere: asservire la stampa, spaventando – tramite la norma sulla “responsabilità oggettiva” – i direttori dei giornali. Che, quasi tutti, peraltro imposti dal partito fascista, si attennero alle nuove disposizioni.

E anche se, dopo l’avvento della democrazia, l’articolo 27 della Costituzione ha stabilito che la responsabilità penale è personale, ossia che ciascun individuo deve rispondere solo per le proprie azioni e che nessuno può essere punito per reati commessi da altri, questa filosofia non è stata recepita nella legislazione sulla stampa, esponendo il direttore al pericolo di dover pagare sia sul piano penale, sia sul piano civile (qualora non ci fosse o venisse meno la manleva da parte dell’editore, il che è accaduto e accade).

Si potrebbe obiettare che il direttore ha il dovere di controllare tutto, proprio tutto, quello che viene pubblicato. Ma come potrebbe, un direttore, anche se lo volesse, controllare ogni riga del suo quotidiano, quando la foliazione di molti giornali supera, con le varie edizioni locali, le 150-200 pagine giornaliere? Non dovrebbe dormire mai e neppure ci riuscirebbe. E anche se controllasse tutto, come potrebbe sapere come si sono effettivamente svolti i fatti riportati dai suoi articolisti se lui non è quasi mai presente sul luogo in cui le vicende si svolgono, perché quasi sempre lui è impegnato, per proprie mansioni, nel coordinamento del lavoro redazionale, in un collegamento televisivo, in un convegno o in molte altre incombenze? Per stare tranquillo un direttore dovrebbe scriverlo da solo un giornale? La verità è che solo un padreterno potrebbe essere a conoscenza dei fatti e delle situazioni che si svolgono, lui altrove, in ogni angolo della nazione o regione. Un comune mortale, no.

Eppure, per chi, sull’onda della legislazione mussoliniana, ha introdotto le regole sulla stampa, il direttore di un giornale ha l’obbligo di controllare e sapere tutto, persino quando egli si trova in trasferta per la propria testata o si trova comunque in altro posto. Neppure la facile constatazione che i giornali del Ventennio si esaurivano in due sole facciate di un’unica pagina e richiedevano solo un controllo politico ai direttori pro tempore, mentre quasi tutti i quotidiani odierni sono fascicoli (con numerosi articoli di cronaca), la cui lettura dalla prima all’ultima pagina comporta più di una giornata di tempo, ecco neppure questa facile constatazione sull’impossibilità di controllare e sapere tutto, è mai riuscita a scuotere il legislatore e salvare il direttore di un giornale dall’incubo permanente di dover rischiare e pagare tantissimo (anche materialmente) in prima persona. Un “regalo”, questo della responsabilità oggettiva dei direttori, firmato dal cavalier Benito Mussolini (1883-1945).

Finale. Piuttosto che evocare, e agitare, ogni giorno il fantasma del Fascismo alle porte, sarebbe assai più saggio, utile, credibile, coerente e convincente rivoltare come un calzino il lascito normativo illiberale (non soltanto nel settore informativo) ereditato dal Fascismo, per adeguarlo ai concetti di un’autentica democrazia liberale. Sarebbe, forse, una riforma ancora più conveniente e giusta di quelle attese dall’Europa per benedire i progetti dell’Italia per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ma di sicuro non cambierà nulla nel campo del fascismo legislativo ancora in vigore. Meglio continuare ad esercitarsi nella ritualità della denuncia del diavolo dietro l’angolo che esaltarsi nella novità di una rottura reale con quel passato che non vuole passare.

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