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Uniti è meglio. È un po’ questo il senso che c’è dietro il diktat del governo cinese al settore dei semiconduttori, considerato estremamente importante e strategico per non perdere la partita tecnologica contro gli Stati Uniti. Per riuscirci, però, la Cina ha necessità di rendersi autonoma. Di fronte a un’industria frammentata, la richiesta è di procedere con megafusioni affinché le varie tecnologie confluiscano in un unico chip che verrebbe finanziato dallo Stato. Motivo per cui quest’anno Pechino ha istituito un tavolo di confronto tra le varie aziende, supervisionato dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, che avrebbe dovuto seguire l’intero processo di fusione. Che però sembra andare incontro a diverse difficoltà, dovute alla diversa visione delle aziende.

A raccontare questa storia è il Financial Times, secondo cui i maggiori problemi sono emersi attorno alla struttura e alla valutazione della proprietà. Le aziende che hanno già raggiunto una posizione di rilievo, insomma, sono scettiche nell’unirsi ad altre che fanno più fatica. Sebbene si mantengano le bocche ben cucite, le trattative sarebbero ancora in corso ma c’è poca fiducia che si riesca a centrare l’obiettivo. O quanto meno, il rischio è di rallentare i tempi che servono per centrarlo.

Questo perché il processo di semplificazione viene comunque portato avanti. Lo dimostrano le ventisei acquisizioni di semiconduttori ufficializzate dall’inizio dell’anno, tra cui la più importante a maggio tra l’azienda che progetta unità di elaborazione centrale per server e data center, Hygon, e il produttore di supercomputer, Sugon. Centralizzare, e quindi rendere la catena di approvvigionamento maggiormente uniforme concentrando i vari investimenti sui talenti nazionali, renderebbe l’offerta di chip cinesi più allettante. Anche per le aziende cinesi che non producono semiconduttori. Siccome dietro questa spinta c’è il governo pechinese, molte hanno deciso di reindirizzare le loro attività. Ma anche qui, scrive il FT, le cose procedono a rilento sempre a causa della differenza tra acquirente e venditore.

La necessità di poter contare solo sulle proprie forze sembra essere sempre più impellente per la Cina. Il know-how degli americani è stato essenziale per portare Pechino ai livelli dove si trova oggi, ma la guerra fredda che si è instaurata da ormai diversi anni con Washington ha reso più difficile ottenerlo. Le ultime due amministrazioni, quella di Joe Biden e Donald Trump, hanno avuto un approccio molto simile con la superpotenza asiatica, mettendo dei limiti agli export – sebbene Trump stia allentando un po’ la presa.

Detto ciò, Pechino è riuscita comunque a rifornirsi di quel materiale. Anche perché il colosso americano Nvidia aveva fatto pressione sulla Casa Bianca per riprendere le esportazioni in Cina dei suoi chip, dove ha un mercato molto forte. Dopo che Trump ha ascoltato il suggerimento, Pechino ha però richiamato l’azienda per problemi di sicurezza legati ai suoi semiconduttori H20. Sostanzialmente, sarebbero composti con tecnologia back-door e quindi disattivabili da remoto.

A rispondergli oggi è la stessa Nvidia, in un blog pubblicato sia in inglese sia in cinese, in cui scrive che “l’integrazione backdoor e kill switch nei chip sarebbe un regalo per hacker e attori ostili. Minerebbe l’infrastruttura digitale globale e incrinerebbe la fiducia nella tecnologia statunitense”. Da vedere se il governo cinese lo riterrà plausibile. È certo, invece, che sta provando a fare da sé.

Anche Pechino ha difficoltà con l’autonomia sui chip. Ecco quali

Il governo di Pechino sta spingendo per megafusioni tra le aziende affinché la catena dei semiconduttori sia più uniforme e si possano creare dei talenti nazionali. Ma ci sono dei problemi legati alle incomprensioni tra le aziende che rallentano il processo

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