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Oggi Nicola, il mio simpatico e informatissimo barista di fiducia, mi ha apostrofato appena entrato con aria di sfida, evidentemente pensando di nuovo alle rinnovabili nel vedermi: probabilmente si prospettava per lui una giornata un po’ moscia oppure ce l’aveva semplicemente con la Cina, per qualcuno dei suoi aggeggi elettronici (cinesi, manco a dirlo) improvvisamente morto.

“E anche con le rinnovabili” mi fa, un po’ risentito “alla fine non facciamo altro che dare soldi alla Cina, mentre qui non c’è lavoro!”

Subito mi è venuto in mente quello che ci ricorda sempre Elettricità Futura, la principale associazione nazionale delle imprese del mercato elettrico: in realtà l’Italia ha già una filiera tecnologica di eccellenza per le rinnovabili, che occupa 120.000 persone, comprende 800 aziende e fattura ogni anno più di 12 miliardi di euro, ovvero 0,7% del Pil nazionale 2021 (Althesys-Fondazione Enel, 2022). Una filiera che esporta pure con successo, visto che siamo il sesto Paese esportatore di componenti per gli impianti da fonte rinnovabile, con una media di 5 miliardi di euro di export, e il secondo produttore in tutti i comparti, tranne l’eolico (Intesa San-Paolo, 2021).

Ho pensato poi ad alcuni studi di settore (Irena, 2017-2018) nei quali veniva scomposto l’impatto occupazionale degli investimenti nell’eolico e nel solare fotovoltaico (di grande taglia) e veniva stimato il peso di ciascun segmento della catena del valore, sul totale a vita intera: ebbene, la produzione dei pannelli solari risultava pesare per il 15% e quella degli aerogeneratori a terra anche meno.

Quindi in un attimo mi è apparso non così vero che della “torta” delle rinnovabili, in termini di occupazione, a noi rimangono le briciole: ma ho aspettato a rispondere, conoscendo la granitica assertività di Nicola, perché sentivo di essere ancora troppo poco convincente.

Allora ho richiamato alla mente il rapporto trimestrale “Energia e Clima in Italia”, che il GSE ha iniziato a pubblicare recentemente e che diffonde i dati aggiornati sulle rinnovabili, incluse quelle per il settore elettrico, eolico e solare fotovoltaico in particolare.

Andiamo con ordine: il rapporto ci dice che in Italia nel 2021, anno di ripresa post-pandemia, la capacità installata è salita da 32,5 GW a 33,8 GW, tra eolico e fotovoltaico, e che queste due fonti di energia hanno generato lavoro (diretto e indiretto) equivalente a 21.200 persone, tra occupazione permanente e temporanea: questo considerando solo le attività per la costruzione e installazione degli impianti, le cosiddette attività di “C&I”, e quelle per la loro gestione e manutenzione, le cosiddette attività di “O&M”.

Non proprio briciole, ho pensato.

Va detto tra l’altro che si tratta di attività a contenuto sicuramente locale che tuttavia, come vedremo, rappresentano solo in parte il riverbero complessivo prodotto sulle economie ospitanti da queste realizzazioni, pur essendo ad impatto occupazionale importante ed immediato.

Consideriamo ora lo scenario di sviluppo auspicato per l’Italia, in linea con gli obiettivi comunitari “Repo-werEU” e con quanto dichiarato recentemente dal ministro Pichetto: 70 GW di nuova capacità rinnovabile in sei anni, ovvero circa 16,2 GW di eolico, di cui 8,5 GW a mare, e circa 54 GW di fotovoltaico, di cui 12,4 GW distribuito (Terna-Snam, 2022).

Tralasciamo qui la nuova capacità di accumulo (idroelettrico di pompaggio o batterie elettrochimiche), che dovrà essere realizzata in parallelo per circa 92 GW, e quella di elettrolizzatori, per 5 GW; così come gli in-vestimenti che dobbiamo aspettarci per il rinnovamento/ripotenziamento degli impianti che arriveranno a fine vita utile: per il comparto eolico, ad esempio, l’Ue stima che circa 38 GW di capacità raggiungeranno 20 anni di esercizio entro il 2025.

Ebbene, per le attività di O&M generate dal nostro scenario di sviluppo, si creerebbe da noi lavoro equivalente a quasi 20.000 persone, occupate stabilmente per venticinque anni, di cui circa 16.000 relative al fotovoltaico. Ciò solo di lavoro diretto e assumendo anche che il fotovoltaico distribuito non contribuisca all’occupazione in fase di esercizio.

Eppure non mi sentivo ancora pronto a rispondere a Nicola: infatti, se fosse vero che per ora perdiamo completamente le “fette della torta” relative alla produzione di pannelli solari e di aerogeneratori (cosa che poi non è neanche così vera), vorrebbe dire che comunque per ottenere quel lavoro ne “regaleremmo” prima ad altri Paesi dell’altro per quasi 34.000 persone equivalenti, occupate per sei anni, di cui circa 24.000 relative al fotovoltaico.
Stavo per arrendermi, ma poi ho pensato ai futuri cantieri e al fatto che il fotovoltaico risulta oggi la fonte di energia (di gran lunga) a più alta intensità lavoro in assoluto tra quelle low-carbon, quanto alla sua fase di C&I: peraltro, in questo caso, quello distribuito assorbe almeno il 50% in più di manodopera rispetto al foto-voltaico di grande taglia.

Allora ho realizzato che le future attività di C&I legate al fotovoltaico, sempre considerando le risultanze di quegli studi, creerebbero lavoro diretto in Italia equivalente a quasi 30.000 persone, occupate per sei anni, di cui oltre 9.000 per il fotovoltaico distribuito. Poi ci sarebbe l’eolico, a terra e a mare, che creerebbe quasi 12.000 ulteriori posti di lavoro diretto, sempre su sei anni. Va detto che nelle attività di C&I sono incluse le opere di connessione alla rete (le sottostazioni) e tutta la parte di lavori che riguardano le fondazioni. Totale per queste attività: l’equivalente di quasi 42.000 persone occupate per sei anni.

Quindi il risultato per noi non sarebbe poi così male.

Naturalmente si tratta di basi statistiche, con tutti i limiti che esse hanno, datate per natura: gli impianti italiani potranno avere taglie medie diverse, potranno cambiare le proporzioni tra le tecnologie oppure i tempi potranno essere più o meno compressi, ma gli ordini di grandezza in gioco dovrebbero essere questi.

Ancora troppo poco? Può darsi, ma con il “benaltrismo” non si va da nessuna parte.

Tra l’altro, ci sarebbero altre “fette” interessanti da considerare, legate alle fasi realizzative degli impianti: al-tre migliaia di persone impegnate in attività con un certo contenuto specialistico, quali il trasporto, l’approvvigionamento, lo sviluppo, la progettazione, il decommissioning. Tutte attività a carattere locale da fertilizzare per estrarre competenza e diffondere crescita.

Ci sarebbe poi da ricordare anche tutta l’occupazione indiretta e quella indotta durante l’intero ciclo di vita degli impianti: ad esempio quella connessa alle attività di supporto locale, come la fornitura di materiali, mezzi e macchinari, così come di servizi esterni (di tipo amministrativo, tecnico, formativo, finanziario).
Insomma il bilancio finale sembrerebbe comunque favorevole: non sarebbero poi proprio “briciole” quelle che ci tratterremmo in casa a fronte di un massiccio sviluppo delle rinnovabili, pur presidiando ancora poco la produzione di pannelli solari e aerogeneratori.

Anzi, forse è proprio mettendo in campo l’insieme di tutte le attività prima citate che creeremmo anche i migliori presupposti per aggredire progressivamente di più sia la nostra “torta” che quelle di altri Paesi, innestando così un ciclo virtuoso e duraturo di sviluppo industriale, oltre che infrastrutturale.

Intanto però l’Italia questa volta potrebbe diventare davvero un hub, forte e autorevole. Da anni proviamo a farlo con il gas (tempo fa erano addirittura una dozzina i rigassificatori in attesa di autorizzazione), ora ci prepariamo già a farlo con l’idrogeno o addirittura con il litio. Eppure il nostro Sud, nonostante tutto, un hub delle rinnovabili è già molto vicino ad esserlo.

Infine un dubbio, per riflettere: anche in valore, il peso dei pannelli solari sul totale dell’investimento è sceso ormai fino al 30%. Altri tipi di componenti, di cui l’Europa (e l’Italia) presidiano già bene la produzione, so-no comunque altrettanto interessanti: inverter e strutture di montaggio e inseguimento, ad esempio. La gran parte della colossale filiera di produzione dei pannelli solari, tutta concentrata in Cina, è continuamente sull’orlo della bancarotta, pur se sostenuta da giganteschi aiuti statali. Alcuni paesi occidentali hanno provato a scalfire quel monopolio, che dura ormai da più di quindici anni, ma non vi sono ancora segnali di successo. Gli stessi maggiori produttori di aerogeneratori, tutti invece europei, stanno presentando (tutti) i conti in rosso, nonostante l’attuale momento di domanda fortemente crescente: anche qui la Cina sta erodendo i margini attraverso i componenti.

Andare a competere su quella parte di arena, in maniera sostenibile nel tempo, non è affatto facile.

In ogni caso converrebbe che nel frattempo aumentassimo la presa sul resto della “torta” (che non è poco, come abbiamo visto), laddove siamo già forti o possiamo esserlo, laddove non rischiamo troppo in attacco o non ci scopriamo troppo in difesa. La nostra manifattura, le nostre capacità nella meccanica, nell’elettrotecnica, nell’ingegneria, nell’innovazione tecnologica competono già a testa alta nel mondo. Ad esempio, converrebbe pensare da subito ad affrontare uno snodo cruciale dell’onda d’urto poderosa che ci aspetta, anche solo così: quello delle persone e delle loro competenze, della loro disponibilità e della loro formazione.

Ma questa è un’altra storia.

A proposito, quando stavo finalmente per rivolgermi a Nicola e rispondergli a tono, lui era già passato a discutere di un altro tema (calcistico, credo) con un altro cliente. Ho perso l’attimo: anche oggi ha avuto la meglio lui.

Rinnovabili. La Cina, la filiera e un dubbio. Scrive Carmine Biello

Di Carmine Biello

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