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“Il settore dei social non ha una disciplina. L’uso da parte dei leader politici di Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok non è regolamentato nemmeno da norme di par condicio, serve una disciplina di settore”. A dirlo in una conversazione con Formiche.net è la giornalista Silvia Grassi, esperta di comunicazione giudiziaria e coautrice del saggio “Comunico dunque sono” curato insieme al prof. Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania.

La comunicazione della giustizia è molto divisiva, come stiamo vedendo in questa infuocata campagna elettorale. Il 25 settembre si vota per le politiche, pochi giorni prima il 18 e 19 settembre, tutti i magistrati italiani sono chiamati ad eleggere i 20 togati che andranno a comporre il nuovo Csm, non appena il prossimo parlamento avrà votato i 10 laici. Cosa significa, in questo scenario, “comunicare la giustizia”?

Comunicare la giustizia – come ha ricordato più volte il Presidente della Repubblica Mattarella – significa costruire fiducia, non ricercare consenso. La ricerca del consenso è propria dei partiti politici, altro è la costruzione della fiducia, che i cittadini devono riporre nell’azione giudiziaria e quindi nell’operato della magistratura. La magistratura non deve essere solo autonoma e indipendente, come prevede la Costituzione, ma anche apparire tale agli occhi dei cittadini. La riforma Cartabia, disciplinando in modo più stringente le cosiddette “porte girevoli” politica – magistratura, ha già prodotto i primi effetti: non ci sono magistrati in servizio candidati alle elezioni politiche.

Quali sono i temi che affronta nel saggio?

In flash: giustizia, non giustizialismo, giustizia e codice deontologico. Nel mio scritto cerco di affrontare il tema della comunicazione da parte dei magistrati e dell’informazione giudiziaria. I giornalisti hanno il dovere di informare i lettori, nel rispetto degli obblighi deontologici, così come i magistrati devono comunicare con sentenze chiare, comprensibili a tutti, perché la giustizia è un servizio che viene reso ai cittadini. Ma anche il tema della spettacolarizzazione: dai processi in Tv a quelli sui Social.

Lo spartiacque per la giustizia è stato Tangentopoli? E da allora ad oggi cosa è cambiato?

Sicuramente, anche se il filone del racconto giudiziario viene inaugurato, in Tv, già negli anni ’80. Nel 1985 nasce la trasmissione Rai “In Pretura”, che nel 1987 diventa lo storico programma “Un giorno in pretura”, in onda ancora oggi. Un modo serio e garbato per raccontare i processi in tv. Ma è dagli anni ’90, in poi, con il clamore di Tangentopoli che si diffonde il fenomeno della “spettacolarizzazione” della giustizia nei salotti televisivi, anche con imputati invitati in studio, a processo in corso. La “spettacolarizzazione” è l’apice del corto circuito tra media e giustizia: è la celebrazione sui mass media di una giustizia parallela. Un processo che si celebra nei salotti tv e non nelle Aule di giustizia e che spesso finisce per sovrapporre la verità mediatica a quella giudiziaria, con prevalenza della prima sulla seconda. Oggi, come allora, si rincorre la notizia “last minute”, lo scoop, raccontando con dovizia di dettagli l’avvio dell’inchiesta e le indagini preliminari; con poche righe e disinteresse il processo.

La spettacolarizzazione sembra non passare mai di moda. Anzi, oggi con i social tutto è spettacolo. Sembra che anche l’agenda della politica sia dettata dagli influencer. Penso all’ultima presa di posizione di Chiara Ferragni, su un tema sensibile e divisivo come quello dell’aborto. Cosa ne pensa?

La spettacolarizzazione si è spostata dai media tradizionali ai social, con l’aggravante che quest’ultimi sono un “non luogo” dove tutto è concesso, non essendoci ancora una disciplina di settore. Ci si affida all’autoregolamentazione e all’autodisciplina, con le piattaforme che intervengono solo nei casi più gravi e su segnalazione degli utenti. E i rischi (e gli interrogativi aperti) sono molteplici, se anche una giornalista acuta come Natalia Aspesi, alla luce dell’ultima polemica sull’aborto, si chiede a che punto siamo e dove arriveremo, se Ferragni, e quindi il “partito degli influencer” colma “il silenzio (o il vuoto) dei partiti”.

Passiamo da anni di accese polemiche sulla supplenza (o presunta tale) della giustizia sulla politica alla supplenza degli influencer?

Penso che il ruolo e il “peso” degli influencer, oggi, sia sempre più percepito e percepibile. Ma tanto potere di influenzare l’opinione pubblica senza nessun controllo, senza una disciplina di settore, è normale? In Rete, e soprattutto sui social, informazione e marketing sono spesso, volutamente, sovrapposte e indistinte. Inoltre mentre chi esercita la professione giornalistica ha dei precisi obblighi deontologici, tutti gli altri soggetti che “comunicano” con i social sono liberi di scrivere e promuovere qualsiasi prodotto (o tesi) senza nessun controllo. Nel libro “Comunicatore a chi?” che sto scrivendo con un collega di grande esperienza, il direttore Roberto Iadicicco, affronteremo proprio questo tema, per cercare di capire quali sono gli strumenti e le professionalità per combattere questi fenomeni e quello particolarmente odioso delle fake news.

Altra disparità tra gli organi d’informazione e le piattaforme social è quello del rispetto della disciplina sulla “par condicio”. Radio e tv devono rispettare norme stringenti sull’esposizione mediatica dei partiti e i social?

I social, attraverso i quali vengono veicolati anche contenuti elettorali, che spesso danno vita a polemiche diventando subito virali, non hanno una disciplina. L’uso da parte dei leader politici e dai candidati di Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok, e ogni altra piattaforma social, non è regolamentato da norme di “par condicio”. La regola è che non ci sono regole, se non attenersi alle policy della piattaforma. Ci si affida all’autoregolamentazione. Ma come si può pretendere l’autodisciplina da soggetti che usano i social come strumenti di marketing e non hanno obblighi deontologici, né professionali?

Per radio e tv l’Autorità garante (Agcom, ndr) effettua un monitoraggio periodico, che diventa molto più intenso nella fase finale della campagna elettorale, e può erogare delle sanzioni, anche molto salate. Il tema della “pubblicità politica” sulle piattaforme social è all’attenzione della Commissione Europea, che dovrebbe approvare un regolamento in materia entro il 2023.

C’è un tema che avvelena la campagna elettorale: le fake news, come si combattono?

Le fake news si manifestano in vari modi e sono particolarmente insidiose perché non avvelenano solo il dibattito pubblico, ma sono un rischio per la nostra democrazia, specie quando vengono diffuse, in campagna elettorale per procurarsi un vantaggio o per danneggiare l’avversario. Sui social, poi, non c’è nessuno che vigila, e il confine tra comunicazione, informazione è sempre più sfumato, con incursioni e sovrapposizione dei piani. Per questo giornalisti e cittadini devono sempre verificare e soppesare fonti e canali d’informazione. Il pluralismo è una ricchezza, ma non tutte le fonti sono uguali, bisogna esserne consapevoli e informarsi solo con fonti autorevoli e verificate. Io mi affido al vaglio dei 3 setacci di Socrate. Prima di riportare una notizia (o di rilanciarla sui social) bisogna chiedersi: se è vero, se è buono, se serve. Se in tutti e tre i casi la risposta è negativa, io mi comporterei come suggerisce il filosofo ateniese: “Se ciò che vuoi raccontare non è vero, né buono, né utile, allora preferisco non saperlo e ti consiglio di dimenticarlo”.

Giustizia e comunicazione, quale disciplina per i social? Conversazione con Silvia Grassi

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