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In un documento congiunto pubblicato lunedì, il ministro dell’Economia e delle Finanze francese Bruno Le Maire e il ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck hanno invitato l’Ue e gli Stati Uniti a elaborare regole comuni sull’accesso ai pacchetti di sussidi, lanciando quello che hanno definito “un partenariato economico verde”, che vorrebbero vedere all’ordine del giorno della prossima riunione del Trade and Technology Council. Insomma, dopo le frizioni degli ultimi mesi, Germania e Francia si mettono d’accordo sul tipo di risposta da adottare rispetto al gigantesco piano di sussidi nordamericani contenuti nell’Inflation Reduction Act. Ne abbiamo parlato con Nils Redeker, vice-direttore del Jacques Delors Centre di Berlino, esperto di relazioni franco-tedesche e transatlantiche.

Quali sono i principali risultati del documento elaborato da Le Maire e Habeck?

Credo che l’aspetto interessante di questo documento sia che possa darci un’idea della direzione di marcia che Germania e Francia hanno in mente, nel senso che vogliono tre cose. La prima è che vogliono una maggiore flessibilità per i progetti di interesse comune europeo. Si tratta di un framework speciale che consente agli Stati membri di riunirsi e di intraprendere politiche comuni. Lo abbiamo visto con le batterie e i microchip, la Germania e la Francia hanno sempre utilizzato molto questo tipo di quadri politici. Sono sempre state molto aperte a utilizzarli di più e ora spingono soprattutto per ampliare la portata dei progetti possibili, ma anche per ottenere approvazioni più rapide, più velocemente.

Il secondo?

Il secondo aspetto è che la Germania e la Francia hanno in mente un margine di manovra molto ampio riguardo le sovvenzioni nazionali, i crediti d’imposta e il settore strategico. In pratica, vogliono implementare regole che stabiliscano un certo quadro di riferimento per i settori e che permettano di erogare sussidi senza dover controllare ogni singolo programma internazionale che rientra in questo quadro. Se così fosse, scioglierebbero davvero le briglie. In terzo luogo, in sostanza, il documento afferma che gli Stati membri europei dovrebbero essere in grado di corrispondere i sussidi erogati da Paesi terzi. Ma non solo.

In che senso?

Naturalmente, porte aperte, spese piuttosto ingenti, programmi nazionali, seguendo ciò che fanno anche altri Stati. Gli Stati Uniti utilizzano molto denaro pubblico per le loro imprese e, se la Germania vuole cambiare le cose, anche gli Stati membri dell’Ue dovrebbero poterlo fare. Credo quindi che il documento preveda un ampio allentamento delle regole sugli aiuti di Stato in settori specifici e in quei settori che sono importanti per la transizione climatica e per gli interessi strategici della Germania, della Francia e dell’Ue nel suo complesso.

Stiamo assistendo al ritorno della concordia tra Francia e Germania dopo le frizioni degli ultimi mesi?

Sì. Li abbiamo visti litigare, soprattutto per quanto riguarda le questioni legate all’energia, ma anche per quanto riguarda gli approcci generali a questioni come le relazioni con gli Stati Uniti e la Cina. E questo documento ora li sta davvero unendo. Non è sorprendente che si trovino d’accordo perché, almeno dal 2019, entrambi i Paesi hanno davvero una convergenza su un’idea comune: l’Ue e i suoi Stati membri devono diventare più attivi sulla politica industriale. Ora abbiamo una grande spinta in questo senso in Germania perché avevamo bisogno di qualcosa del genere, per sistemare le relazioni con la Francia e per avere una proposta costruttiva sul tavolo.

C’è qualcosa di particolarmente interessante?

È interessante che abbiano voluto combinare due elementi: una nuova normativa sugli aiuti di Stato e, allo stesso tempo, più risorse comuni condivise a livello europeo per finanziare progetti politici nei nostri Stati membri, per evitare sussidi all’interno degli Stati membri. Perché questo sarà un problema per quei Paesi che non hanno la potenza fiscale della Germania. Su questo punto il documento è ancora molto vago, in pratica dice di voler riorientare i fondi inutilizzati dai programmi esistenti. Ma ad essere onesti, la risposta non è che ci siano molti fondi inutilizzati, il bilancio dell’Ue è già abbastanza vuoto a causa della guerra alla crisi energetica.

E dunque cosa prevede l’accordo?

Si vuole rivalutare il ruolo che la European Investment Bank può svolgere in questo ambito, ma anche questo è molto limitato in termini di finanza congiunta. Il documento afferma che queste due cose costituiscono il primo passo. Quindi c’è un’apertura per altri passi successivi, anche se non dice molto al riguardo. Quindi penso che l’opposizione maggiore arriverà dalla Commissione, ma sicuramente anche da altri Stati membri, soprattutto quelli più piccoli che non sono in grado di permettersi i programmi di sovvenzione di Germania e Francia.

Se il piano andrà in porto, il governo tedesco dovrà elargire aiuti di stato alle imprese nei settori strategici. È la fine dell’austerità?

Io credo che l’austerità tedesca sia finita da un bel po’ di tempo. Penso che già al più tardi durante la pandemia la Germania abbia iniziato a spendere molto, innanzitutto per sostenere l’economia durante la crisi, ma poi anche con i nuovi pacchetti sul clima e soprattutto con un nuovo governo più aperto agli investimenti pubblici. Quindi, credo che le politiche di austerità tedesche siano state eliminate a partire dal 2010. Negli anni successivi la Germania è stata orientata verso maggiori investimenti. Lo abbiamo visto con il fondo per il clima e la resilienza istituito dal nuovo governo, che ora spende di più anche per il settore militare. Abbiamo il fondo per sostenere le imprese e le famiglie nella crisi energetica. Quindi non credo che l’austerità tedesca sia un problema.

Germania e Francia hanno un’idea molto diversa dei rapporti con la Cina…

Credo che ci sia ancora una differenza tra l’approccio francese e quello tedesco. Penso che la Francia sia molto più esplicita sulla necessità di assicurarsi che non ci sia un’eccessiva dipendenza dal mercato cinese, sia per gli input che per le esportazioni. E naturalmente la Germania è molto più dipendente dalla Cina come mercato. Quindi, credo che il governo sia ancora più cauto e abbia più da perdere, visto che le relazioni commerciali con la Cina sono davvero importanti. Ma credo che, ancora una volta, la Germania si sia resa conto che l’eccessiva dipendenza è un problema e costituisce un rischio politico-economico. E lo stesso vale per alcune aziende tedesche, in una certa misura, almeno per le grandi associazioni industriali tedesche che sono molto consapevoli del rischio che il mercato cinese può rappresentare.

Dunque si intravede un cambio di rotta tedesco?

Penso che sia molto importante per la Germania evitare di incorrere in vere e proprie guerre commerciali. Per esempio, l’intero dibattito che la Francia ha avuto sul fatto che avremmo dovuto produrre in Europa e che avremmo dovuto acquisire lavoratori americani e cose del genere, non si è riflesso nel documento, perché Berlino non è d’accordo. Se si trattasse di misure di puro protezionismo, la Germania sarebbe più cauta e, in quanto Paese orientato all’esportazione, dovrà essere cauta. Ma questa virata verso misure di politica industriale più aperte è sicuramente un indicatore del fatto che la Germania sta cambiando.

La (ritrovata) concordia franco-tedesca sui sussidi europei. Lo sguardo di Redeker

I governi di Parigi e Berlino ritrovano la concordia dopo le frizioni degli ultimi mesi. Spingeranno in due direzioni: da un lato perché le aziende strategiche europee possano godere dei sussidi green nordamericani, dall’altro perché l’Unione europea allenti le regole sugli aiuti di Stato. Le relazioni con la Cina restano un nodo da sciogliere. Conversazione con Nils Redeker, vicedirettore del Jacques Delors Centre

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