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A Pechino, non è certo un mistero, hanno sempre avuto il pallino del made in Italy. Per questo, nel tempo, il Dragone si è intrufolato nel capitale di molte aziende dello Stivale, spesso strategiche, diventando dirimpettaio del governo italiano, in molti casi azionista di controllo. Un’aggressività tipica di chi ha tanta cassa e può competere sul mercato con prezzi spesso e volentieri sotto l’asticella della concorrenza e diventata simbolo della politica industriale cinese degli ultimi due decenni.

C’è però un lasso di tempo che per l’Italia rappresenta il momento in cui si sono aperte le porte agli investitori cinesi. Un frangente sotto forma di lungo tappeto rosso che coincide pressappoco con il governo di Matteo Renzi. In quei famosi mille giorni, l’esecutivo guidato dall’ex sindaco di Firenze divenuto leader del Pd e poi premier, si susseguirono una serie di operazioni che portarono i capitali cinesi quasi fin dentro il cuore dell’economia italiana. Una memoria storica che vale la pena rispolverare nei giorni in cui il governo di Giorgia Meloni ha deciso di intervenire per porre un freno all’avanzata cinese.

Come? Mettendosi a tavolino per valutare una serie di regole, da incastonare in un provvedimento, sia per respingere nuovi assalti del Dragone, sia per favorire il disimpegno dei capitali cinesi già annidati nei vari azionariati. Una mossa da leggere anche in chiave geoeconomica e che chiama direttamente in causa gli Stati Uniti. Come ha rivelato l’agenzia di stampa Bloomberg, infatti, l’obiettivo di Palazzo Chigi è far capire a Washington che troppa Cina nei centri nevralgici dell’industria pubblica o statale (da Cdp Reti, che controlla la rete energetica italiana co Terna, Italgas e Snam, passando per Pirelli, di cui il colosso pubblico Sinochem detiene il 37%), non è buona cosa.

Ed è proprio da Cdp Reti, la società creata nel 2012 dal governo di Enrico Letta con l’obiettivo di mettere al riparo da eventuali scorribande straniere (cinesi, in primis) le infrastrutture di rete critiche e strategiche italiane, a cominciare da quelle energetiche, che inizia tutto. Era il 2014 quando State Grid Corporation of China acquisiva il 35% di Cdp Reti dal braccio finanziario del Tesoro. Matteo Renzi era da poche settimane presidente del Consiglio dopo il gelido passaggio di campanello con Letta, mentre alla presidenza di Cassa depositi e prestiti c’era Franco Bassanini. Ora, due anni prima, aveva visto la luce la normativa sul golden power con tanto, qualche mese dopo, di decreti attuativi che, una volta firmati, avrebbero reso operativi e fruibili i poteri speciali del governo. Peccato che Renzi sì firmò i provvedimenti citati, incluso quello sulle infrastrutture critiche, ma lo fece a valle dell’operazione con State Grid. Quando, cioè, i buoi erano già entrati nella stalla.

Da quel momento, fu un susseguirsi di acquisizioni targate Dragone. Nel 2015, sempre con Renzi a Palazzo Chigi, ChemChina (poi fusasi nel 2021 con Sinochem) annunciò l’Opa su Pirelli, acquisendo la maggioranza dello storico produttore di pneumatici e dando vita a una convivenza, non sempre idilliaca, con la Camfin di Marco Tronchetti Provera. Non è finita. Nelle medesime settimane, la relazione Consob sulla partecipazioni rilevanti svelava le quote della Banca del popolo cinese, l’istituto centrale di Pechino, in Eni ed Enel, rispettivamente pari al 2,1% e al 2,07%. Contemporaneamente si assistette a un altro arrivo eccellente, quello di Shanghai Electric nel capitale di Ansaldo, con una quota del 40% rilevata dal Fondo strategico italiano. Partnership poi irrobustita nel 2017.

A fluidificare il tutto, poi, intercorsero anche una serie di viaggi dello stesso Renzi e dell’allora ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, proprio in Cina e proprio per stringere ancora di più i bulloni con il Dragone. Per l’occasione si parò anche di una collaborazione piuttosto stringente con Alibaba, il colosso dell’e-commerce cinese diretto competitor di Amazon. Attenzione, il governo Renzi portò la Cina anche nelle telecomunicazioni. Capitolo francese a parte, vale a dire l’ingresso in forze di Vivendi in Telecom che proprio Renzi sostenne, negli anni dell’esecutivo del premier toscano aumentò sensibilmente lo spazio di mercato in Italia di colossi quali Huawei e Zte.

L’obiettivo era mettere il naso dentro il 5G tricolore e proprio quest’ultima, strinse legami sempre più robusti con Open Fiber (nata proprio per volere del governo Renzi), sotto la presidenza di Bassanini. Nel 2017, invece, Huawei arriverà a gestire parte della fibra della stessa Open Fiber. Le basi, comunque, erano state gettate proprio dall’esecutivo Renzi, come dimostra l’accoglienza riservata, in uno dei famosi viaggi di Renzi nella Repubblica Popolare, dell’allora ministra dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. La quale fu ricevuta dal presidente e amministratore delegato di Zte Shi Lirong e dal General Manager di Zte Italy Hu Kun che le preannunciarono “l’interesse di continuare a crescere in Europa e in Italia”.

Ed eccoci ai giorni nostri, con un vento decisamente diverso. Nel 2021, quando Renzi non era più premier da un pezzo, come raccontava Francesco Bechis, su questo giornale, Palazzo Chigi aveva deciso di esercitare il veto sulla joint venture tra la cinese Zhejiang Jingsheng Mechanical, azienda produttrice di componenti di microchip, e il ramo di Hong Kong di Applied Materials, società americana leader nella produzione di software per i semiconduttori finalizzata ad acquistare il ramo italiano della stessa Applied Materials. Era la seconda volta che l’allora premier italiano bloccava un’acquisizione di un’azienda cinese nel settore dei microchip. Già a marzo, infatti, aveva infatti esercitato il veto per fermare l’acquisto del 70% della Lpe, azienda produttrice di chip con sede a Baranzate, da parte del colosso cinese Shenzen Invenland Holding.

E si arriva a Giorgia Meloni. La quale ha continuato a correggere il tiro. Tanto per cominciare, ha imbrigliato Sinochem in Pirelli, ricorrendo, almeno in parte, alla normativa del golden power, anche e non solo su implicito invito dello stesso Tronchetti Provera, che con la sua Camfin detiene il 27% di Pirelli. Come? Limitando l’influenza del socio asiatico su aspetti tecnologicamente sensibili come i sensori cyber montati sugli pneumatici, usati anche in Formula 1. Lo scorso aprile, su richiesta dei regolatori, il cda di Pirelli ha poi declassato lo status di governance di Sinochem, dichiarando che il gruppo non ha più il controllo della società. Senza dimenticare il sostegno al buy european act sul procurement per i materiali strategici e l’uscita dal patto sulla Via della Seta voluto dal governo Conte. Certo, le armi a disposizione dell’Italia sono ancora troppo spuntate, specialmente nelle operazioni di mercato con player cinesi tra soggetti privati. Eppure, sul versante più pubblico, vale a dire Cdp Reti, sarebbe opportuno e lecito immaginare di poter sanare la scelta fatta nel 2014.

Post scriptum. Solo pochi giorni fa, dalla Germania, è arrivata la notizia di un’altra zampata del Dragone. JD.com ha deciso di entrare in Europa attraverso la porta principale. Il colosso cinese dell’e-commerce, secondo solo ad Alibaba nel Paese asiatico, ha infatti annunciato martedì 30 luglio la sua offerta pubblica di acquisto volontaria per rilevare completamente Ceconomy, la holding tedesca che controlla le catene MediaWorld, MediaMarkt e Saturn. L’offerta ammonta a 2,2 miliardi di euro e prevede un pagamento di 4,60 euro per azione, cioè circa il 23% in più rispetto al valore delle azioni prima dell’annuncio. L’operazione coinvolgerebbe oltre mille punti vendita in undici Paesi europei e circa 50mila dipendenti, configurandosi come una delle più importanti acquisizioni cinesi nel commercio al dettaglio europeo degli ultimi anni.

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