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Premesso che per Matteo Salvini, traballante e delegittimato com’è nella Lega così come nel Paese, dal punto di vista squisitamente politico una condanna sarebbe stata auspicabile, la vicenda Open Arms nel suo complesso ci invita a riflettere su almeno tre questioni.

Eccole: l’azione temeraria dei pubblici ministeri, la reazione ipocrita della politica, l’approccio fazioso dei media.

Che l’accusa di sequestro di persona (e in fondo anche quella di rifiuto di atti di ufficio) non avrebbe retto era chiaro tutti sin dall’inizio del processo. Lo dicevano i penalisti, lo sussurravano i costituzionalisti: anche quelli che pubblicamente sostenevano il contrario. Ma la logica non era giudiziaria, era politica. Salvini andava messo politicamente fuori gioco. Priorità emersa con forza sconcertante dalle trascrizioni delle chat dell’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, con il capo della procura di Viterbo, Paolo Auriemma. Auriemma: “Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando”. Palamara: “Comunque va attaccato”.

Si dirà che la Giustizia ha infine trionfato e che, dunque, il sistema è sano. Invece no: come nel caso del processo Open ai danni di Matteo Renzi, i cui presupposti furono giudicati infondati sin dall’inizio della Corte di Cassazione, il processo in danno di Salvini non doveva proprio cominciare. Avviandolo comunque la pubblica accusa si è assunta la grave responsabilità di inquinare la scena politica alterando il naturale corso del confronto democratico.

C’è poi la reazione ipocrita della politica. Ipocrita e soprattutto lesiva di alti principi costituzionali. Quella dell’autorizzazione a procedere concessa o meno dalla camera di appartenenza alla procura che intende indagare un parlamentare è l’ultima vestigia dell’articolo 68 della Costituzione: quello che, prima di essere smontato pezzo dopo pezzo da una classe politica ignara di sé e atterrita dall’azione mediatico-giudiziaria, garantiva l’“immunità” al ceto politico parlamentare. Una norma di civiltà a tutela non della persona ma della funzione che la persona ricopre.

Ebbene, a differenza di quel che accadde di fronte ad un’analoga richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini per il caso della nave Diciotti, il 30 luglio 2020 la Giunta per le autorizzazioni del Senato votò a favore del processo Open Arms a carico del medesimo ministro. Che cos’era cambiato da allora? Semplicemente il fatto che la maggioranza rossoverde si era dissolta, inopinatamente sostituita da un’alleanza tra Movimento 5 Stelle, Partito democratico e Italia Viva. I rappresentanti di questi tre partiti votarono, dunque, non per tutelare la funzione istituzionale, ma per far danno alla persona che quella funzione ricopriva. Una grave violazione della logica istituzionale e dello spirito costituzionale di cui si rese protagonista, con non inedito afflato giustizialista, anche Renzi.

C’è, infine, la faziosità dei media, come sempre divisi pro o contro a prescindere dalla realtà. Nel tempo, mi è capitato di discutere con diversi colleghi fermamente convinti che Salvini fosse un sequestratore di persone. Molti erano in buona fede, ma accecati da un profondo disprezzo nei confronti del capo della Lega e da un sincero orrore nei confronti delle politiche migratorie da questi poste in essere. Erano in buona fede, certo, ma la buona fede non ne giustifica la cieca faziosità. Faziosità che ha certo incoraggiato la pubblica accusa nel non recedere dalle proprie intenzioni “politiche“.

Il processo Open Arms è terminato, ma non per questo smetteremo di dover fare i conti con gli effetti perversi delle tre questioni che ha scoperchiato.

Le tre, gravi, questioni sollevate dal processo Open Arms. Il commento di Cangini

L’azione temeraria dei pubblici ministeri, la reazione ipocrita della politica e l’approccio fazioso dei media. Tutto questo emerge chiaramente dalla vicenda che ha riguardato Salvini

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