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Forse è colpa del lockdown senza esclusione di colpi a Shanghai. O magari della guerra in Ucraina scatenata dall’alleata Russia. Probabilmente di entrambi. Fatto sta che in Cina l’inflazione comincia a far paura sul serio, mettendo la banca centrale, la Pboc, dinnanzi a un drammatico bivio: aumentare i tassi per frenare la rincorsa dei prezzi, ma con il rischio di indebolire una crescita del Pil già corretta al ribasso (+5% la stima per il 2022, ma siamo solo ad aprile), oppure lasciare i tassi invariati, lasciando però l’inflazione libera di correre.

L’INFLAZIONE AZZANNA IL DRAGONE

I numeri sono chiari. A marzo l’inflazione cinese, rimasta stabile a gennaio e febbraio, è salita oltre le attese dell’1,5% su base annua. Il National Bureau of Statistics (Nbs) punta il dito sul costo delle materie prime e sull’aumento dei focolai che hanno portato finora a due settimane di lockdown a Shanghai, mentre sul finire del weekend anche il porto di Guanghzhou ha chiuso agli arrivi per evitare nuovi contagi.

L’indice, dopo essere rimasto invariato dello 0,9% per due mesi di fila, ha superato le stime degli economisti, ferme a +1,4%. Ma c’è una voce che più di tutti ha pesato sul dato di marzo: i carburanti, il cui costo è aumentato del 24% su base annua a marzo, segnando un rialzo mai visto prima.

IL DILEMMA DELLA PBOC

Ora, dinnanzi a una simile crescita, dovrebbe entrare in gioco la politica monetaria, come già successo negli Stati Uniti con la Federal Reserve, attivatasi con un primo aumento dello 0,25% del costo del denaro. Misura che, a guardare il dato mostruoso di due giorni fa (prezzi in salita dell’8,5% a marzo, ai massimi dal 1981), probabilmente non basterà. Ma la Cina?

La banca centrale cinese ha sempre predicato di voler addirittura tagliare i tassi, per rimettere in sesto una crescita azzoppata da oltre due anni di pandemia. D’altronde, non è certo un mistero, l’intera economia cinese poggia sulla crescita forsennata, che nel Dragone è quasi una questione culturale, ormai innestata nel dna del Paese. Dover ammettere che tale crescita al momento latita è doloroso. Ma ora bisogna fare i conti con l’inflazione e i tassi, più che abbassati, andrebbero alzati, frustrando ancora di più l’umore del governo di Xi Jinping.

“L’aumento dell’inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia limita la possibilità per la Banca popolare cinese di tagliare i tassi di interesse, nonostante il rapido deterioramento dell’economia”, ha affermato Ting Lu, capo economista cinese di Nomura. Insomma, il gong è già suonato e per ridurre i tassi non c’è più tempo. “Riteniamo che aprile possa essere l’ultima possibilità per la Cina di tagliare i tassi di interesse nel breve termine”, ha chiarito Bruce Pang, capo della ricerca macro e strategica presso China Renaissance.

L’EUTANASIA RUSSA

Certo, ch’è chi sta messo peggio. Per esempio la Russia che rischia di sacrificare 20 anni di crescita nel nome di una guerra sciagurata. Primi default a parte – nei giorni scorsi sono finite a gambe all’aria le ferrovie dell’ex Urss – il Prodotto interno lordo russo potrebbe subire il crollo più grave dagli anni successivi alla caduta dell’Unione Sovietica. La Banca Mondiale ha previsto infatti per il 2022 una contrazione dell’11% come conseguenza delle sanzioni varate da Ue e Usa in risposta all’invasione in Ucraina. E c’è ovviamente anche lo zampino dell’inflazione, soprattutto nel campo alimentare: la pasta è cresciuta del 25%, frutta e verdura del 35%.

Qualcuno al Cremlino deve aver passato un brutto quarto d’ora, comunque, preso dal panico dopo il dato diffuso dalla Banca Mondiale. Altrimenti non si spiega la mossa della Duma, il parlamento, che ha proposto di introdurre la gestione esterna con la successiva vendita di azioni all’asta delle società straniere che hanno lasciato la Russia. Un disegno di legge che suggerisce di trasferire il controllo delle imprese che svolgono un ruolo cruciale nelle infrastrutture o che potrebbero comportare gravi tagli di posti di lavoro. Praticamente una nazionalizzazione.

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