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Tasse, armi, diritti civili. La politica americana litiga su tutto. O meglio, quasi tutto. C’è una sola cosa che mette d’accordo un lato e l’altro del Congresso a Washington DC: la Cina. Se sull’invio di armi e munizioni all’Ucraina contro l’aggressione russa qualche crepa, sia pure sottile, inizia a intravedersi, congressmen e senatori marciano compatti sulla necessità di contenere la crescita economica e militare del rivale cinese.

L’ultimo episodio di una Guerra Fredda, che fredda è sempre di meno, è raccontato oggi dal Wall Street Journal. Tra le pieghe del grande decreto sulla competitività in discussione da mesi al Congresso e non a caso ribattezzato “China act” si fa largo una legge che può assestare un colpo doloroso all’economia cinese. Porta la firma di due senatori, il democratico Bob Casey e il repubblicano John Cornyn e ha un obiettivo chiaro: dar vita a un nuovo meccanismo di screening per limitare l’export americano di tecnologie e beni sensibili in Cina. Una ghigliottina pensata per dare un taglio agli investimenti nei Paesi definiti “avversari” e che però è cucita su misura per Pechino.

Se dovesse passare, l’export americano verso la Cina subirebbe una sforbiciata senza precedenti in tutti i settori critici per le supply chain, dal farmaceutico ai semiconduttori, dalle batterie all’Intelligenza artificiale e la robotica. La lobby delle aziende Usa che fanno affari con la Cina, e non sono poche, è già entrata in pressing contro una misura che il Consiglio per il business Cina-Stati Uniti ha definito “senza precedenti in 250 anni di storia americana”. La politica, invece, non batte ciglio.

Di certo non i conservatori, che apprezzano eccome il pugno duro dell’amministrazione Biden. Martedì un panel dell’American Enterprise Institute (Aei), noto think tank americano, ha fugato ogni dubbio. Ospite di una discussione dal titolo eloquente, “Difendere le economie occidentali contro le pratiche scorrette della Cina”, insieme al deputato repubblicano del Comitato di intelligence Darin LaHood, gli esperti dell’Aei Elisabeth Braw e Derek Scissors, il giornalista di Foreign Policy James Palmer, c’era anche il presidente del Copasir Adolfo Urso, a Washington insieme a una parte del comitato in una missione istituzionale.

Su un punto nessuno ha obiezioni: dopo la pandemia e la guerra russa in Ucraina con la Cina di Xi Jinping non si tornerà più al “business as usual”. L’America vede nella Cina non un rivale, ma “il” rivale. “Non si può far cambiare corso a Xi – sospira LaHood – e il Congresso del Partito comunista cinese in autunno confermerà quel che già sappiamo: che la Cina è uno Stato autoritario e oppressivo”. Le accuse lanciate da Donald Trump contro la Città Proibita – il furto di proprietà intellettuale, lo spionaggio tramite la rete 5G, la violazione dei diritti umani e il lavoro forzato – sono le stesse che oggi guidano la politica estera americana vis-a-vis Pechino.

Sono lontani i tempi dell’appeasement e l’illusione di una globalizzazione democratica. “Dobbiamo essere pronti a una nuova fase e ad affrontare perfino un decoupling economico, assumendoci i rischi che comporta”, dice il repubblicano del comitato intel. Sono lontani anche i tempi della Via della Seta italiana e dei memorandum firmati da Xi tra Roma e Palermo, gli ha fatto eco Urso. Oggi in Italia, ha ricordato il senatore di Fdi a capo del Copasir, suona un’altra musica. “Ero al Wto quando, all’inizio degli anni 2000, decidemmo di far entrare la Cina e Taiwan – racconta – ci siamo illusi che sui binari della tecnologia e della globalizzazione sarebbe passato il treno della libertà. Dal 2013 Xi ha fermato quel treno e lo ha portato indietro”.

Adesso agli occhi dell’Italia, e soprattutto della sua intelligence, la Cina si presenta come rivale più che partner. Di qui le precauzioni da prendere, dice Urso. Come nella rete 5G, su cui il Copasir ha lanciato due anni fa un monito (inascoltato) chiedendo di escludere le cinesi Huawei e Zte per questioni di sicurezza nazionale, “una legge cinese obbliga i cittadini a fornire informazioni ai propri sistemi di sicurezza”.

Il divorzio da Pechino è facile a dirsi, molto meno a farsi, soprattutto per gli Stati Uniti. Dice Palmer: “La Cina è bravissima a lavorare con il business americano, tra incentivi e lavoro a basso costo. Quando il manager arriva a Pechino, viene accolto in un hotel a cinque stelle e riempito di elogi. Quando torna a Washington non è più un manager ma un lobbista. Per loro”.

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