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Una legislatura che ha avuto la capacità di non smorzarsi appena nata quando, non ancora uscita dall’incubatrice, la notte del 4 marzo 2018 si scoprì che la creatura si presentava assai sofferente perché nessuno aveva la dotazione di seggi necessaria per votarsi un governo e ognuno era in lotta furiosa con tutti gli altri, una legislatura così è, in tutta evidenza, destinata ad arrivare al capolinea senza traumi insuperabili.

Come quei bambini abbandonati, trovatelli miracolosamente sopravvissuti alla notte, al freddo, alla fame nella ruota della fortuna delle monache. Uno stillicidio, questo sì, di guerriglie e trincee, non mancherà di segnare i prossimi mesi, soprattutto dopo l’estate, quando gli starter della gara per il voto di marzo avranno sparato i colpi di partenza per il rush finale. Ma, si può scommettere quel che si vuole, nulla fermerà il cammino della macchina parlamentare fino alla sua naturale estinzione. Potremmo elencare molti e tutti nobili motivi, dall’evidente difficoltà internazionale, alla crisi recessiva, dagli adempimenti per il Pnrr, dal Covid, alle cose da completare, ed altro ancora per testimoniare quanto attaccamento al lavoro e alle esigenze del popolo sovrano questo Parlamento dimostra di avere.

E che nessuno provi a pensare a male, come fanno i sostenitori di motivazioni, diciamo così, meno alate, che sorreggerebbero il governo di Draghi. C’è persino qualche malpensante che sarebbe disposto a giurare che fino al voto della prossima primavera nessun parlamentare sarebbe disposto a far saltare tutto, provocando un anticipo delle elezioni e dicendo addio allo scranno nove-dieci mesi prima, con tutti gli annessi e connessi, diciamo così, numismatici. E con la quasi-certezza di dire ciao a questo meraviglioso sogno.

Sì, perché, a fare due conti, il prossimo turnover, dopo la riforma costituzionale che ha praticato il taglio di quasi il 40% dei parlamentari, sarà micidiale. Se la media “usuale” del cambiamento degli inquilini di Montecitorio è stata del 64/65% nelle ultime legislature, a questa si deve aggiungere il 36/37% dovuta ai seggi mancanti a causa della riforma: più del 100% dei parlamentari sarebbe destinato a lasciare lo scranno. Sicuramente non sarà così, specialmente se resterà in piedi questa stessa legge elettorale, che salverà i compilatori delle liste bloccate e i loro cari. Diciamo, allora, che, tra Camera e Senato un 10%, solo una sessantina di servitori del popolo, tornerà a riveder la luce. Per gli altri turnover selvaggio, il che, a parte i giudizi di valore o disvalore per i singoli, non è un affare per l’organo costituzionale che rappresenta il popolo sovrano e racconta molto della subalternità del Parlamento all’esecutivo in questa lunga stagione cominciata una trentina d’anni fa.

Nella vana attesa del necessario e dell’indispensabile (l’eterna riforma della legge elettorale, dei Regolamenti parlamentari, eccetera eccetera) assistiamo a rumorosi riposizionamenti sullo scacchiere. E allora vediamo rifulgere antichi amori nel segno di nuove bandiere pacifiste che garriscono col vento della grande Russia – leggi Conte e Salvini -, vediamo tenersi coi denti ipotesi coalizionali che già in partenza denunciano i verbi difettivi – vedi Pd con Cinque Stelle ridotti a meno di un terzo -, ascoltiamo l’invocazione dell’ineluttabile vittoria della destra che mette un velo pietoso sul conflitto intestino, aspettiamo un Godot centrista che più lo evochi e più scompare, come un fantasma scespiriano nel labirinto del paradosso di un’insuperabile autoreferenza dei capetti.

Se restano questi ingredienti in campo c’è da scommettere che la minestra prenderà il sapore scombinato della XVIII legislatura, quella ancora in corso. Ibrida e asimmetrica. Come una guerra dei nostri giorni.

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