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La mia generazione è stata nutrita con il nettare dell’antibellicismo, talvolta ornato di bandiere ideologiche dichiaratamente pacifiste, ma per lo più semplicemente incastonato in quotidianità estranee all’idea di una guerra nel mondo civile, leggasi europeo ed occidentale. Semplicemente l’argomento era fuori dai nostri radar: roba da film in tv con John Wayne, considerato peraltro un vecchio rudere dell’ideologia paleoconservatrice di alcune tribù yankee. Noi stavamo bene con sesso, bugie e videotape. E molto rock. Forse questo è il condimento psicologico dello spaesamento che ha preso buona parte della classe dirigente europea di fronte alla guerra davanti all’uscio di casa.

L’impreveduto si è, all’improvviso, impadronito della scena, di tutta la scena, riducendo a comparse un po’ tutti. Comparse poi scomparse. Certo: non vediamo in giro giganti come Winston Churchill a promettere lacrime e sangue e dall’altra parte dell’Oceano non c’è Franklin Delano Roosevelt a guidare il mondo libero verso la vittoria sul nazifascismo. E, in fondo, anche Putin più che a Stalin – anche il male ha la sua terrificante grandezza – somiglia piuttosto ad un burocrate senz’anima come quelli descritti nelle narrazioni paralogistiche di Kafka. Ogni generazione ha gli eroi che si merita, non c’è dubbio. Ciò che inquieta, però, è l’ingresso di alcuni esorcismi semantici nel lessico politico. Come la guerra asimmetrica, per esempio.

Che cosa vuol dire è presto detto: viene dal vocabolario militare e descrive un conflitto in cui le forze in campo sono vistosamente diseguali. Come, appunto, Russia contro Ucraina. L’asimmetria può allargarsi a concetti paralleli, che riguardano strategie e tattiche non convenzionali. Per quel che riguarda noi occidentali “asimmetria” vuol dire “noi la guerra non la facciamo ma, siccome vogliamo bene agli ucraini gli diamo le armi”, cosa che, del resto Zelensky non ha mai mancato di chiedere. La nostra asimmetria è dunque una condizione sbilenca, in cui lo spazio per la speranza che questa tragedia possa finire in un tempo è affidato a che cosa? Alla capacità di eroismo del popolo ucraino? Ad una improvvisa vocazione suicidaria di Putin e dei suoi satrapi, che, non avendo risolto la pratica nei tempi previsti, possano ritrovarsi, nell’intrico dei bunker sotto il Cremlino, a trapassarsi con lunghi e affilati spadoni, come facevano i guerrieri giapponesi sconfitti, o a scambiarsi le pillole al cianuro, come fecero Hitler e i suoi sodali? O dobbiamo sperare nel golpe bianco da parte di personalità assennate che non aspettano altro se non di procedere alla rimozione dello zar?

Siamo onesti: non abbiamo segnali apprezzabili che ci inducano a pensare una fine del conflitto per attività negoziali, ormai neanche più in corso per finta, né notizie di Biden o Xi disposti a ridisegnare l’assetto del mondo partendo dall’Ucraina. Dunque di che cosa si nutre la nostra speranza per una ragionevole conclusione dell’invasione Ucraina? Basterà il Donbass – nell’articolata gradazione di toni che potrebbe assumere un territorio sotto il tallone russo – a placare le mire di Putin? Basterà il corridoio marino fino all’espropriazione del Mare di Azov? In fondo Zelensky l’ha già dichiarata la sua disponibilità a lasciare il Donbass, insieme alla rinuncia all’ingresso nella Nato.

Forse Putin vuole un di più: il nostro prossimo inverno freschetto e la futura estate calduccia saranno sufficienti a consumare il nostro sacrificio per la democrazia? Che strana la nostra guerra, un po’ asimmetrica, vista per televisione: una larga camicia dove si nasconde l’inerzia assoluta di una politica in surplace. Un po’, come dire? asimmetrica. Come la faccia di un ritratto cubista.

Phisikk du role - Una stagione asimmetrica

Che strana la nostra guerra, un po’ asimmetrica, vista per televisione: una larga camicia dove si nasconde l’inerzia assoluta di una politica in surplace. Un po’, come dire? asimmetrica. Come la faccia di un ritratto cubista. La rubrica di Pino Pisicchio

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