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I sindacati e il governo si sono lasciati promettendosi di rivedersi dopo l’inizio del 2022 per trovare modo e maniere di riforma più efficiente e più equo il sistema previdenziale. È un obiettivo fattibile. Ma sono necessarie due condizioni: a) non considerare sacro santa le legge che ha preso il nome dal ministro del Lavoro del Governo Monti, Elsa Fornero; b) considerare la previdenza come parte della rete di protezione sociali e, quindi, un comparto il cui riassetto può essere fatto unicamente riformando anche altre componenti dello stato sociale.

In tempi non sospetti, in un libro collettaneo pubblicato nel 2018 documentai che “la legge Fornero” è, al tempo stesso, ragionevole ma illogica. È ragionevole perché le dinamiche demografiche italiane sono tali che è normale aspettarsi ingresso nel lavoro in età maggiore che nel passato e soprattutto un’uscita più tardi nell’arco della vita perché è cresciuta l’aspettativa media, e soprattutto la probabilità che si allunghi la nostra avventura terrena in buone condizioni fisiche e mentali. Inoltre, l’Italia, quando la legge fu varata, aveva un’età di pensionamento effettivo (poco più di 63 anni) relativamente bassa se raffrontata con il resto d’Europa a ragione sia di scelte individuali sia della transizione da vecchie normative a quelle ora in vigore, sia di prepensionamenti autorizzati dalle autorità politiche in seguito a crisi aziendali o settoriali (stampa, siderurgia, ecc.). Di conseguenza, per poter sostenere un sistema previdenziale occorre lavorare sino ad un’età mediamente più tarda di quanto avveniva nel passato. Inoltre, a ragione del progresso tecnologico, il contenuto di numerosi lavori è diventato meno usurante.

La “legge Fornero” è, però, illogica perché un meccanismo previdenziale “contributivo”, in cui le spettanze sono funzione del montante accumulato, stride con il concetto stesso di “età legale per la pensione” sia essa “d’anzianità” o di “vecchiaia”. Quando nel 1995 venne introdotto “il meccanismo contributivo”, chiamato “a capitalizzazione simulata” da uno dei suoi maggiori ispiratori, Alessandro Gronchi, non si è riflettuto sul fatto che qualsiasi sistema in cui la pensione dei contributi versati, fa a pugni con l’idea stessa di vincoli “legali” all’età di pensionamento. Chi è rimasto più a lungo al lavoro, è stato pagato di più ed ha contribuito di più, ha un “montante” più elevato e, quindi, va a riposo con un una “rendita” più elevata; chi lavora (e contribuisce) per un numero inferiore di anni, può decidere di andare in pensione , ma deve accontentarsi di una “rendita” più bassa per avere un numero maggiore di anni di tempo libero.

In un sistema a capitalizzazione privato (come un fondo pensione), la rendita dipende da come sono stati investiti i versamenti degli iscritti. In un sistema a ripartizione ma “a capitalizzazione simulata”, come il nostro (una volta completata la lunghissima transizione del “meccanismo retributivo”, in cui le spettanze erano collegate alle retribuzioni degli ultimi anni), l’entità della rendita è il risultato dai parametri definiti per legge per la costituzione del montante e per la sua “trasformazione” in spettanze. Più che dall’età in cui si va in pensione.

L’Italia e la Svezia sono stati i precursori di un sistema ormai diffuso in una quarantina di Paesi e conosciuto con l’acronimo NDC (Notional Defined Contributions) ossia a contributi definiti (per legge) e figurativi (ancora per legge) perché i parametri sono stabiliti dal Parlamento. Se tali parametri sono definiti in modo accurato, sarà il mercato a segnalare all’individuo quando andare “in pensione”, sempre che egli abbia la capacità e le volontà di badare alle proprie esigenze o di continuare a lavorare.

Negli Stati Uniti, l’età legale della pensione è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema in quanto discriminatoria nei confronti degli anziani. È anche un danno alla collettività. Nel mio caso personale, ho raggiunto l’età legale della pensione a 67 anni, dopo 45 anni di servizio pubblico ed ero perfettamente in grado di continuare nella mia funzione. Ho, infatti, continuato a lavorare per sei anni, insegnando in due università e come consulente di una grande impresa, nonché ad avere un incarico pubblico in un organo di rilevanza costituzionale. Con la conseguenza che per sei anni, lo Stato ha versato a me, tramite prima l’Inpdap e poi tramite l’Inps, una pensione ed, in parallelo, uno stipendio quasi analogo al mio assegno previdenziale a chi mi ha sostituito.

Quale è l’età appropriata per andare in pensione? In un sistema NDC, in cui le spettanze pensionistiche sono basate sui contributi versati e sul montante che si è accumulato (in base a parametri e coefficienti definiti per legge) non ci dovrebbero essere età legali né di vecchiaia né di anzianità. Tali età legali sono discriminatorie nei confronti di chi vuole andare in pensione presto e si accontenta di un assegno basso ed anche di chi vuole e può continuare a lavorare sino a tarda età.

Ad esempio, il mio maestro, Isaiah Frank alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington ha insegnato quattro corsi l’anno (e supervisionato diverse tesi) sino all’età di 85 anni quando ha smesso a ragione di un cancro che ne ha causato il decesso tre anni dopo. Era considerato un grande docente di Economia internazionale sino a quando ha dovuto lasciare; e per lui, presente in università dalle 9 alle 18, l’insegnamento ed i contatti con gli studenti erano un toccasana. È comprensibile, invece, che chi ha un lavoro pesante o ripetitivo, voglia andare in pensione prima, specialmente se ha altri redditi con cui integrare una rendita più bassa e gli possa essere consentito di farlo.

In più di una trentina di Paesi NDC, la decisione su quando e come andare in pensione è lasciata agli individui. Nei Paesi dirigisti, e vincolisti, è fissata per legge. Può anche essere ragionevole fissarla se si è in una crisi economica e una fase di “transizione previdenziale” (da un sistema ad un altro) o di crisi finanziaria. La legge Fornero può essere considerata uno di questi casi sia perché l’Italia era nel pieno di una crisi economica e finanziaria nel 2011 sia perché, malauguratamente, nel 1995, su richiesta dei sindacati, governo e Parlamento optarono per una transizione di 18 anni (non tre come fece in quel periodo la Svezia) causando varie distorsioni che si è, poi, cercato di curare mettendo pezze qua e là, senza un disegno organico.

A questo punto, occorre chiedersi se è economico e socialmente preferibile mettere vincoli collegati all’età anagrafica o agli anni in cui sono stati versati contributi. Sotto il profilo economico e sociale, i secondi (ossia il nesso agli anni di contributi versati) sono preferibili al primo (l’età anagrafica). La ragione è l’aspettativa di vita che varia in funzione dei redditi e dei ceti sociali. Tutti sanno che in un Paese povero come l’Etiopia l’aspettativa di vita alla nascita non tocca i 50 anni mentre in Italia ed altri Paesi europei supera gli 80. Pochi, però, in Europa riflettono che un fenomeno analogo si ha all’interno dei Paesi del continente vecchio.

Uno dei maggiori istituti di ricerca tedeschi, il DIW di Berlino, ha pubblicato uno studio approfondito (Discussion Paper No.1698), di cui sono autori Peter Haan, Daniel Kempter e Holger Luthen, sull’aumento del differenziale di longevità secondo i redditi nella vita attiva e le implicazioni distributive per i sistemi pensionistici. I dati parlano chiaro: il divario di longevità è aumentato da quattro e sette anni tra benestanti e poveri negli ultimi quaranta anni. Non so se l’Istat abbia pubblicato studi analoghi. L’ultimo rapporto del ministero della Salute documenta, però, che dal 2008 è aumentato il numero di coloro che, passati 65 anni, non hanno una buona qualità della vita – sono tutti nelle fasce di reddito basse e non possono permettersi sanità di livello, ricorrendo anche a finanziamenti privati. In breve, vincoli basati sull’età anagrafica sono regressivi sotto il profilo sociale. Ciascuno ne tragga le conclusioni che ritiene per eventuali proposte legislative.

Sarebbe, quindi, logico che fosse il mercato a dare i segnali agli individui sull’età in cui andare in pensione piuttosto che una norma di legge. Dato che i mercati non sono perfetti, a mio avviso, un sistema previdenziale ideale dovrebbe essere uno sgabello a tre gambe: una gamba ‘sociale’ a carico della collettività come la old age pension britannica (può essere declinata in vari modi ma dovrebbe essere classificata come spesa sociale, non previdenziale), una gamba NDC basata sul reddito da lavoro, non discriminatoria e tale da lasciare ai singoli la decisione su quando andare a riposo, ed una gamba interamente privata tramite fondi pensioni collettivi o piani di accumulo individuali. Sarebbe meglio lavorare su come articolare questo sgabello che accapigliarsi sulla legge Fornero.

Un argomento cui si parla poco ma che è difficile ignorare nel rimodulare la normativa previdenziale riguarda i versamenti di coloro che l’Inps chiama i silenti. I silenti sono coloro che non maturano i requisiti pensionistici e che quindi al termine della loro vita lavorativa non percepiscono la benché minima pensione. Ben sette-otto milioni di italiani rischiano di rimanere senza pensione a causa dell’incremento da 15 a 20 anni dei contributi minimi da maturare per collocarsi a riposo varato nel 1993. Silenti, quindi, innocenti perché l’aumento dei requisiti, effettuato, per decreto legge, in un momento di grave crisi sarebbe dovuto essere temporaneo e invece è diventato permanente. Un requisito di venti anni di contributi per fruire della previdenza non solo è il più alto al mondo ma è fortemente regressivo nel senso che penalizza i più deboli. I silenti sono soprattutto donne, ex lavoratori autonomi, stagionali, professionisti con una vita lavorativa irregolare, categorie destinate a crescere con l’aumento del precariato e dei contratti a termine. Questi dati fanno emergere tutta la superficialità con cui sono state redatte le riforme previdenziali. Si parla di una falla da ben 10 miliardi di euro, a tanto ammontano quei contributi, che se l’Inps fosse costretta a restituire ai lavoratori rischierebbe il default. Un bel guaio per l’Inps, ma anche e soprattutto per coloro che hanno avuto carriere brevi o che emigrano all’estero e “lasciano” i versamenti in Italia o, peggio ancora, che muoiono prima di avere adempito ai requisiti, abbandonando i familiari senza alcuna tutela. A mio avviso, la norma del 1993 è forse anche incostituzionale in quanto discriminatoria, poiché la gestione separata Inps richiede un minimo di cinque (non venti) anni di versamenti per poter fruire di una pensione.

In breve, una revisione del trattamento dei “silenti” potrebbe essere una fonte per finanziare, la gamba “sociale”. Un’altra dovrebbe essere il cosiddetto “reddito di cittadinanza” non solo spesso all’onere delle cronache per la sua mala gestione (che pare coinvolga criminalità organizzata e trafficanti di droga) ma perché è illogico e regressivo che il “reddito di cittadinanza” di base (780 euro) superi del 50% la pensione integrata al minimo di 501,28 euro di chi ha lavorato almeno vent’anni in mansioni basse e con retribuzioni, quindi, parimenti basse.

Nello schema delineato una riforma è fattibile ma dovranno fare un passo indietro sia la tifoseria della legge Fornero sia la tifoserie di quel “reddito di cittadinanza” che appare sempre più regressivo, oltre che criminogeno.

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