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Nella tragedia della guerra russa in Ucraina planata oggi in Parlamento con un sobrio quanto emotivo appello del presidente Volodymyr Zelensky, c’è un onore delle armi, per così dire, da riconoscere all’altra parte.

Lo stupore occidentale di fronte ai carri armati russi sconfinati in Ucraina nella notte del 24 febbraio può aver dato l’impressione di un “colpo di testa” di Vladimir Putin, un blitzkrieg, uno scacco (da) matto. Niente di vero. Gli analisti e l’intelligence si arrovellano a ricostruire i piani militari russi, chi afferma siano iniziati lo scorso autunno e chi invece un anno fa.

Ma al di là delle manovre sul campo, la guerra ibrida russa che accompagna quella a suon di missili poggia su una pianificazione (almeno) decennale. C’è un motivo se i talk show italiani ospitano esperti che “dibattono” delle “ragioni” dell’aggressore, i social network ribollono di propaganda russa e una parte non secondaria del gotha industriale strizza ancora l’occhio al Cremlino. È il frutto di un lavoro certosino, metodico.

Dalla rivoluzione di Maidan e l’invasione della Crimea nel 2014, cioè da quando Putin ha iniziato a riscrivere a suo modo la storia spazzando via i sogni occidentali russi di eltsiniana memoria, l’Italia è diventato un grande esperimento per quello che gli studiosi hanno ribattezzato “sharp power”. Una forma di potere che, appunto, non è “soft”, come quello teorizzato da Joseph Nye, ma “affilato”, dunque più pericoloso.

Troppo facile puntare il dito su Matteo Salvini e le intemerate filorusse della Lega. Ci sono state, sono documentate (peraltro, in un accordo di collaborazione con il partito di Putin, Russia Unita), sono perfino diventate un metodo di lavoro ai tempi del governo gialloverde. È un tema politico che resta e riaffiora di continuo, oggi travestito da pacifismo in salsa bergogliana che con il pacifismo e con Bergoglio ha ben poco a che vedere. Ma è pur sempre un tassello del quadro.

In Italia il partito filoputiniano ha radici più profonde che la scossa emotiva e lo sdegno per il massacro in Ucraina forse non riusciranno a sradicare. Nel nostro Paese, per citare il politologo ungherese Peter Kreko, la “Russian connection” ha lasciato il segno più che altrove. Non serve scomodare la Prima Repubblica, che con la Russia sovietica ha parlato e con una certa disinvoltura: la Dc, sotto gli occhi perplessi dell’alleato americano, non ha mai voluto mettere al bando il più grande partito comunista d’Europa e ha chiuso più di un occhio sui rubli che da Mosca arrivavano a Botteghe Oscure.

Negli ultimi anni però il terreno è stato arato con particolare impegno. A partire dalla rete, che nel Belpaese ha aperto corridoi alla propaganda di Stato russa, con un successo quasi ineguagliato di realtà come Sputnik e Rt, i megafoni della Piazza Rossa che, svelava uno studio di Alto Data Analytics del 2018, hanno tirato la volata alle campagne d’odio contro i migranti sul web italiano.

Oggi l’Ue li ha messi al bando, niente più reportage sulla “operazione speciale nel Donbas”, ma la frittata è fatta. Lasciano una scia di pagine e profili sui social network che negli anni hanno ampliato il messaggio e oggi lo tengono in vita. È servita la pandemia per costringerle a un brusco cambio di business, devote alla campagna no-vax. Ora che il fronte chiama, via con la riconversione russa.

La lista dei “seminatori” è lunga, forse ormai anche inutile. Il fascino di Putin ha colpito quasi tutti i partiti, chi più chi (molto) meno, ha inebriato una parte del mondo industriale, impegnato fino all’ultimo minuto, perfino con i carri armati già sulla strada per Kiev, a strappare concessioni e scavare canali preferenziali. Contribuendo ad abbozzare l’identikit di un Paese, volente o no, diventato campo da gioco del “potere tagliente” russo.

Così si spiegano, per elencare i più recenti, alcuni dei più clamorosi episodi degli ultimi anni, dalla sfilata di mezzi militari russi carichi di agenti del Gru verso Bergamo alle sbracciate per il vaccino Sputnik mai certificato dall’Ema e il caso della spia Biot, raccontati e analizzati con dovizia di particolari su Formiche.net. Così si spiega la delusione e la rabbia del ministero degli Esteri russo contro l’Italia, minacciata perché “colpevole” di aver condannato e sanzionato l’invasione russa in Ucraina, quasi fosse inaspettato. Così, forse, si spiega la cautela consapevole di Zelensky a Montecitorio, con un discorso assai meno gridato e accorato di quelli pronunciati al Congresso o al Bundestag.

Certo ci sono eccezioni, punti fermi. Nessun governo ha messo davvero in dubbio i fondamentali della politica estera italiana, dall’atlantismo all’appartenenza alla Nato. Tantomeno il governo Draghi, ora allineato al centimetro con le decisioni prese a Washington e Bruxelles. Ci sono le Forze armate e la Difesa italiane, pilastro del rapporto transatlantico, come ricorda una inusuale e rilevante nota dell’ambasciata americana a Roma diffusa martedì mattina.

Il tempo dirà quanto e cosa servirà per rimettere il Paese sui binari. Nel frattempo, meglio non confondere le cause con le conseguenze. Il triste spettacolo degli scranni vuoti in aula, il controcanto a Zelensky fuori e dentro i palazzi, la bolla social e sociale che ammicca alle “ragioni” russe sono la punta di un iceberg molto più grande.

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