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Gli ultimi dati sull’evoluzione della congiuntura italiana – secondo la versione del Bollettino economico della Banca d’Italia – sono un misto. Preoccupazioni per l’andamento di una pandemia forse meno pericolosa rispetto al passato, ma comunque in grado di fare male: sia alle persone che alle cose. Il tasso di crescita del Pil per il quarto trimestre dello scorso anno è previsto fermarsi ad uno 0,5 per cento, contro il 2,7 ed il 2,6 dei due trimestri precedenti. Colpa, appunto, di quell’incertezza che di nuovo si è impadronita della vita di migliaia di persone. Sennonché l’inevitabile trepidazione è decisamente superata dalla speranza, che non riguarda solo la congiuntura economica, ma qualcosa di più profondo che ha investito la società italiana.

“Alla fine dello scorso settembre”, scrivono gli economisti di Bankitalia, “la posizione netta sull’estero dell’Italia era creditoria per 105,8 miliardi di euro, pari al 6,1 per cento del Pil.” Eravamo stati così bravi, nonostante i mille acciacchi dello Stivale – disoccupazione specie di genere e giovanile, bassi salari, Mezzogiorno, debito pubblico e via dicendo – da fornire all’estero quelle risorse che, incredibilmente, in Italia erano risultate sovrabbondanti. Eccedenti cioè la nostra capacità di investimento, per non parlare di una domanda interna, da anni ridotta ad una sofferente Cenerentola.

Ma la cosa ancor più impressionante è stata la progressione: in un solo anno (settembre 2021/settembre 2020) quei crediti sono aumentati di oltre 68 miliardi. Circa il 4 per cento di un Pil italiano completamente ibernato a trasferito verso altri lidi. Le ragioni di questa evidente contraddizione, rispetto ad un Paese che ha bisogno di tutto, vanno ricercate, soprattutto, nell’andamento del commercio internazionale. Settore in cui l’industria italiana dimostra di essere una vera e propria macchina da guerra.

Anche quest’anno, nonostante i rincari delle materie energetiche, le strozzature degli approvvigionamenti, l’ingorgo derivato da una ripresa simultanea delle diverse economie, la bilancia dei pagamenti chiuderà con un saldo attivo pari a quello dello scorso anno. A novembre era pari a 53,9 miliardi: una manciata di spicci – 700 milioni – meno del saldo del corrispondente periodo del 2020. Un evento eccezionale? Tutt’altro. Secondo le indicazioni del Fondo monetario, alla fine del 2021, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti sarà più o meno pari a quella olandese.

Tradizionalmente il Paese europeo più forte dopo la Germania. Anche in questo caso la differenza dovrebbe essere a favore di quest’ultimo per poco più di 700 milioni di dollari. Sennonché nel 2011 quella differenza superava i 142 miliardi di dollari, a svantaggio dell’Italia, a dimostrazione di quanto la situazione, nello spazio di un decennio, possa essere cambiata. Ed in effetti dal 2013 in poi, dopo quella cura da cavallo rappresentata dalla ricetta Monti, l’Italia, seppure con grande fatica e sacrifici ancora maggiori, è progressivamente risalita.

Al punto da trasformarsi in una sorta di grande banca, come lo era stata Firenze al tempo del Rinascimento. Sono stati più di 462 i miliardi di dollari messi a disposizione dell’estero dal 2013 al 2021. Più del doppio dei finanziamenti del Next Generation Eu, che seppure in parte sarà necessario restituire. Nello stesso periodo la Francia accumulava debiti per oltre 212 miliardi di dollari.

Non è il solo dato a fare impressione. Nella complicata geografia dell’Eurozona i singoli membri possono essere raggruppati sulla base dell’andamento dei loro conti con l’estero. Classifica tutt’altro che banale. In genere ad un attivo nei confronti con l’estero corrisponde una forte crescita della produttività interna, mentre il contrario si verifica in caso di deficit. Come ben ricorderanno gli storici del ‘900, quando, appunto, un’Italia, costantemente in bilico, era costretta a continue svalutazioni monetarie, per recuperare, attraverso questa via una competitività in precedenza compromessa.

Un primo gruppo di Paesi è quello che ha sempre presentato conti con l’estero in ordine. Il capofila è la Germania, ma solo dopo la nascita dell’euro. Nel corso degli anni ’90, infatti, la sua bilancia dei pagamenti era costantemente in rosso, per le spese sostenute in viste della riunificazione nazionale. Poi con l’euro, che di fatto è equivalso ad una svalutazione del vecchio marco, le cose si sono rovesciate e l’avanzo con l’estero è divenuto addirittura imbarazzante: oltre il 6% del Pil, nella media 2002-2019. Un valore decisamente fuori le regole europee (controllo degli squilibri macroeconomici), se qualcuno avesse la forza di farle rispettare.

Appartengono a questo gruppo, innanzitutto, l’Olanda il cui attivo, in termini di Pil, è addirittura superiore a quello tedesco. Ma l’Olanda, come si sa, è uno dei grandi terminali dell’intero commercio del Nord Europa. Gli altri Paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Lussemburgo e Slovenia) hanno un peso minore, ma una voce addirittura più potente. Molti di loro appartengono, infatti, al mondo dei “frugali”: spesso mosche cocchiere dell’ortodossia pan-germanica.

Gli altri dieci Paesi (Cipro, Estonia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia Lituania, Malta, Portogallo e Repubblica ceca) hanno avuto, almeno recentemente, problemi più o meno gravi con le loro bilance dei pagamenti. Le situazioni peggiori sono quelle della Francia che dal 2010 in poi ha totalizzato in media quasi il 50 per cento dello squilibrio complessivo. Ovviamente quella della Grecia ed infine l’eccesso di erraticità nella bilancia dei pagamenti irlandese: fin troppo sensibile alle politiche delle grandi multinazionali che colà hanno sede.

L’Italia e la Spagna sono un caso a parte. Ci troviamo di fronte a due storie decisamente di successo. L’Italia presentava un forte squilibrio nei conti con l’estero ch’era cresciuto progressivamente all’indomani della nascita dell’euro e raggiunto il suo acne nel 2010/2011. Dopo la svolta deflazionistica, il progressivo recupero. In termini quantitativi si passava da un meno 3,3 per cento del Pil (2010) ad un più 3,7 del 2021. La Spagna, invece, partiva da una situazione ancora più difficile (meno 9,4 per cento nel 2007) al più 0,4 del 2021, ma dopo aver toccato, nel 2016, il più 3,2.

Che cosa suggeriscono questi dati? La necessità di mettere fine ad una retorica. Quella secondo la quale l’Italia non cresce a causa della sua bassa produttività, certificata da cervellotiche statistiche. Se fosse così, almeno per le attività direttamente produttive, saremmo ritornati ai tempi della vecchia Alfa Romeo, quando l’azienda era nelle mani dell’Iri. Ed il riscontro, come allora, lo si avrebbe nelle poste negative della bilancia commerciale.

Ed invece nemmeno la pandemia è riuscita a sconfiggere quella “voglia di fare” che caratterizza gran parte dell’industria italiana. Tutto bene, allora? Lo sarebbe se anche gli altri, soprattutto i politici, facessero la loro parte. Si sforzassero cioè di impostare delle politiche economiche corrette in grado di utilizzare all’interno quelle risorse finanziarie che, invece, sono messe a disposizione dell’estero. C’è speranza che questo possa accadere? Forse sì. Molto dipenderà da chi sarà il prossimo inquilino de il Quirinale.

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