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Mentre il mondo democratico spera per l’Afghanistan un regime talebano meno brutale di quello precedente, faremo bene a valutare ogni parola dei Talebani secondo i parametri del doppio linguaggio politico e diplomatico cinese.

Ancora oggi il regime cinese – che ha prontamente accolto l’avvento del regime a Kabul con la convinzione espressa dal portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying che i Talebani “fonderanno un governo islamico aperto e tollerante” – ci ha assicurato un ottimo esempio per impartire bene la lezione.

Sorvoliamo sulle evidenti contraddizioni nel suo scontato appoggio ai regimi islamici in Afghanistan e Pakistan mentre è intento a infliggere crimini contro l’umanità sulla propria popolazione musulmana, e concentriamoci sulle dichiarazioni odierne di Ip Kwok-him, deputato di Hong Kong all’Assemblea nazionale del popolo della Repubblica popolare cinese.

Dopo un anno di arresti incessanti di dissidenti, giornalisti e giovani manifestanti sotto la famigerata Legge sulla sicurezza nazionale imposto da Pechino, secondo Ip a Hong Kong non esiste nessun problema di libertà di espressione e manifestazione. Contrariamente a quanto ci suggeriscono le piazze e le strade svuotate, i divieti di raduni e la rimozione di ogni singolo simbolo di solidarietà popolare, Ip assicura che il popolo di Hong Kong può ancora esprimere le proprie opinioni scendendo in piazza. Con una avvertenza: si può liberamente manifestare “finché le attività non sono finalizzate all’opposizione alla Cina o mosse dall’insoddisfazione per la politica del Paese o per l’ordine di Hong Kong”.

Se il doppio linguaggio del perfetto funzionario cinese risulta ancora troppo vellutato, basta aggiungere che le sue affermazioni arrivano proprio il giorno dopo lo scioglimento del Civil Human Rights Front, l’organizzazione ombrello di gruppi locali pro-democrazia che aveva organizzato alcune delle più grandi proteste di Hong Kong, portando 2 milioni di persone nelle manifestazioni che animarono la città nel 2019. L’organizzazione era conosciuta in particolare per le sue proteste annuali del 1° luglio che segnano l’anniversario del passaggio di consegne della città dal Regno Unito alla Cina.

La decisione di autoscioglimento è arrivata dopo le affermazioni del capo della polizia di Hong Kong, dichiarando che alcune delle proteste organizzate negli ultimi anni potrebbero aver violato la Legge sulla sicurezza nazionale, anche se il gruppo ha per anni collaborato con la forza nell’organizzazione di pacifiche manifestazioni di massa. Un ex governatore della città una volta si riferiva persino ai suoi membri come “amici”.

Durante un’intervista con Ta Kung Pao venerdì, Il capo della polizia Raymond Siu ha avvertito che la polizia aveva raccolto tutte le prove necessarie “per agire contro l’organizzazione illegale in qualsiasi momento”. Ma anche la decisione di sciogliere l’organizzazione che per tanti anni era ritenuta un partner della società civile affidabile per le autorità rischia di non bastare per salvare dalla persecuzione i suoi membri. Nello stesso giorno, la polizia in una nota ha comunicato che l’organizzazione una volta “amica” in realtà non era in regola con la sua registrazione amministrativa, esponendo tutti i suoi ex membri ancora alla persecuzione. Inoltre, ha affermato sempre la polizia, continueranno le verifiche circa le eventuali violazioni della Legge sulla sicurezza nazionale, sia da parte dell’organizzazione sia da parte degli individui che ne facevano parte.

Il tutto nonostante il fatto che il gruppo non aveva organizzato alcuna protesta dall’entrata in vigore della Legge sulla sicurezza nazionale lo scorso luglio. La governatrice della città, Carrie Lam, una volta giurò alle Nazioni Unite che la Legge non sarebbe stata applicata in modo retroattivo. L’ennesima promessa internazionale calpestata dal regime comunista cinese.

E tornano a mente le parole di Bonnie Leung, già consigliere distrettuale a Hong Kong e influente membro dell’ormai fu Civil Human Rights Front. Parole espresse proprio su queste pagine a un mese dall’entrata in vigore della Legge, quando anche suo il contenuto preciso era ancora ignoto. Parole che implorarono il mondo occidentale a non cadere nella trappola del doppio linguaggio vellutato di Pechino, ma di affermare i suoi principi ora prima che fosse troppo tardi: “La [discussione sulla] legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong è l’ultima finestra di opportunità: tutto il mondo democratico si unisca e con una voce sola dica no alle campagne di bullismo cinese. Il kowtowing al regime di molti — troppi — occidentali alimenta il mostro comunista che è già pronto per estendere i suoi artigli su Taiwan. Se non lo si ferma ora, sarà ancora più difficile farlo domani. Ma non si facciano illusioni: prima o poi andrà affrontato”.

Ricordiamoci di queste parole quando sentiremo le prossime promesse vellutate da Pechino. O da Kabul.

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