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Secondo un articolo del Financial Times, a Bruxelles si starebbe valutando la creazione di un nuovo fondo per gli acquisti militari congiunti, dal valore di 500 miliardi euro. Il tema della difesa europea rimane centrale, ma il nuovo fondo rischia di non essere sufficiente, né per volume né per aspirazioni. Ne abbiamo parlato col professor Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai).

Professore, le indiscrezioni rilanciate dal Financial Times parlano di istituire un fondo dal valore di 500 miliardi per rilanciare la difesa europea. Ritiene che questa cifra sia adeguata a risolvere i problemi difensivi del continente?

Non direi. Molto dipende da come questo fondo verrebbe utilizzato, ma in ogni caso non sarebbe ancora sufficiente. Un aspetto poco chiaro è quello della proiezione temporale di questo fondo: è impensabile che questi capitali vengano raccolti ed erogati nel breve periodo. Va ricordato che un grosso problema dell’Ue non è solo quello di avere più fondi, ma anche di come impiegarli. Il vero problema è come accelerare e potenziare la produzione di equipaggiamenti già esistenti e disponibili sul mercato.

E per quanto riguarda gli investimenti sulle nuove tecnologie?

Accelerare sviluppo e produzione di equipaggiamenti basati sulle nuove tecnologie rimane importante, ma è una possibilità legata ai tempi di maturazione di tali programmi. In questo momento non si può pensare di investire grandi capitali solo su programmi che potranno essere disponibili solo a fine decennio. Siamo alla fine del 2024, ci vorranno dai tre ai cinque anni perché qualcosa cominci a essere disponibile. A prescindere dall’aspetto finanziario e temporale, un altro problema è quello della indisponibilità di personale specialistico, soprattutto Stem, oggi molto limitato. Per averlo l’unica soluzione sarebbe rendere così accattivante l’impiego nelle imprese della difesa da andare a togliere personale ad altri settori. Senza, però, che l’Europa perda di vista l’obiettivo di una sua presenza complessiva nel campo delle alte tecnologie. Il fondo non deve diventare una coperta corta che si tira da una parte e lascia scoperta un’altra.

Il tema delle spese per la Difesa è sempre un argomento delicato per l’opinione pubblica, è possibile che anche questo fattore concorra a mettere in difficoltà l’industria?

Oggi l’industria della difesa paga il prezzo di un danno reputazionale provocato negli ultimi decenni attraverso le ideologie pacifiste e ESG. L’industria della difesa è stata considerata un investimento poco etico. Non si rimedia dall’oggi al domani a questo. Oggi in Italia uno dei problemi delle Pmi è l’accesso al credito: le banche locali evitano di finanziare le Pmi della difesa perché temono di esporsi alle critiche etiche dei loro clienti.

Tornando al fondo in discussione, che natura avrebbe da un punto di vista strutturale una simile iniziativa? Chi si farebbe carico del debito?

In base a quanto scritto dall’FT, l’istituzione di un simile fondo (ammesso che si verifichi) non si muoverebbe a livello di istituzioni europee. Quindi non stiamo parlando di Eurobond, garantiti dall’Unione e messi a disposizione di programmi che devono avere un contenuto europeo. Questa volta l’iniziativa sembrerebbe invece muoversi su un piano di cooperazione strutturata permanente, cioè di un gruppo di Paesi dell’Ue che garantirebbe direttamente il finanziamento, seppur coinvolgendo la Banca europea degli investimenti (Bei). Se questa ipotesi si dovesse realizzare, a sua volta avrebbe delle conseguenze. Questo perché un fondo nato fra un gruppo di Stati dell’Unione (e non dall’Ue stessa) andrebbe comunque a debito dei Paesi partecipanti. E quindi cadremmo di nuovo nel problema dei vincoli del Patto di stabilità, perché ciascun Paese dovrebbe garantire una parte del debito. 

Ma se il debito non è comune, non è possibile che alcuni Paesi siano più avvantaggiati di altri, aumentando ulteriormente la frammentazione della difesa europea?

Un fondo europeo dovrebbe mettere al primo posto quelli che sono gli interessi comuni dell’Ue. I programmi che andrebbero finanziati dovrebbero avere la caratteristica di essere considerati europei. Se andiamo a costruire delle unità navali, i Paesi costieri saranno avvantaggiati. Se pensiamo a un sistema di difesa missilistica, saranno i Paesi dell’est i maggiori beneficiari. Al di là di questa bilancia di vantaggi e svantaggi, resta un interesse comune a fare da motore e a giustificare l’impegno dell’Ue. Se l’iniziativa è portata avanti solo da un gruppo di Paesi, è evidente che quest’ultimi finanzieranno quei programmi che sono di loro diretto interesse. Un fondo finanziato da pochi Paesi, se non inquadrato in una logica europea e legato a un finanziamento comune, potrebbe spingere a un’ulteriore frammentazione delle capacità europee di difesa.

Quindi anche questo fondo rischia di rivelarsi inadeguato?

Rischia di mancare un elemento che favorisca l’integrazione dell’Ue. L’Unione sembra non avere ancora compreso quanto è a rischio. Qualsiasi finanziamento è benvenuto, però sarebbe bene che nell’impostare queste iniziative si tenesse conto dell’esigenza di mandare avanti il processo di integrazione, altrimenti il problema della frammentazione odierna si riproporrà anche domani.

Questa non è un’iniziativa che nasce nelle istituzioni europee, dal momento che apre anche a Paesi non-Ue. Cosa ne pensa?

Quando per la Difesa parliamo di Paesi extra-Ue, parliamo di Londra. Dal punto di vista istituzionale e giuridico, noi abbiamo come riferimento l’Ue, ma in realtà dovremmo preoccuparci dell’Europa, con la E maiuscola. Dell’Europa fa parte anche il Regno Unito. Bisogna trovare un accordo con Londra affinché, nonostante non sia più uno Stato membro dell’Ue (pur continuando a stare nella Nato), si possa comunque trovare un accordo specifico per rafforzare le capacità di difesa comuni. Su questo tema l’Italia è particolarmente impegnata. Tradizionalmente collaboriamo con il Regno unito nei velivoli da combattimento e nei missili (e, in passato, anche nell’elicotteristica). Nel Regno Unito, inoltre, Leonardo ha uno dei suoi principali mercati di riferimento. Se vogliamo tutelare l’interesse nazionale, dobbiamo tutelare il fatto che il nostro campione nazionale è parte di un mercato europeo che comprende anche il Regno Unito. È un problema che la stessa Ue dovrà affrontare.

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, le istituzioni europee hanno cercato di proporre nuove forme di coordinamento sulla Difesa. Tuttavia, il potere di cambiare realmente le cose resta in mano ai singoli Stati. Quanto a lungo potrà ancora essere sostenuta questa?

Poco. È evidente che le istituzioni europee si muovono all’interno di un quadro giuridico istituzionale molto stretto. Per quanto si possa essere flessibili, pragmatici, andare al limite dell’interpretazione dei trattati, prima o poi il problema dovrà essere affrontato. Aspettare, però, la riforma delle istituzioni europee è una follia, che in questo momento, semplicemente, non possiamo permetterci. La speranza è che, mentre si fa il possibile con una interpretazione flessibile ed elastica del quadro giuridico attuale, si vada avanti nel processo di integrazione.

Ad esempio?

Io credo molto nell’utilizzo del quadro normativo europeo per una rivisitazione delle cooperazioni strutturate permanenti. Non dimentichiamoci che le cooperazioni strutturate furono inserite nel trattato proprio per consentire ai Paese “willing and able” di andare avanti, in attesa che anche gli altri potessero essere nelle condizioni di seguirli. Poi invece fu fatta una scelta di apertura totale e l’asticella per l’ingresso nelle cooperazioni strutturate permanenti fu abbassata a un livello tale che praticamente tutti gli Stati membri ci sono entrati. Questo ha fatto venire meno la logica stessa della cooperazione strutturata permanente, che prevedeva che i pochi Paesi pronti, disponibili e interessati a condividere determinate capacità di difesa e sicurezza preparassero il terreno in attesa degli altri. Certo che se poi l’ingresso in questo gruppo, — che non è il gruppo dei migliori, è semplicemente il gruppo dei Paesi che hanno maturato una maggiore consapevolezza e stanno dimostrando una maggiore volontà di lavorare insieme — viene aperto a tutti indistintamente, ecco che viene meno l’idea di base, perché si casca nella logica dell’unanimità. Bisogna ritornare all’utilizzo della cooperazione strutturata permanente come strumento per preparare la strada che potrà essere seguita dagli altri quando si metteranno nelle stesse condizioni. Altrimenti, il problema dei vincoli legati all’unanimità, che sta frenando l’Unione europea, si riproporrà anche all’interno della cooperazione strutturata permanente, svuotandola del suo vero significato.

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