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Alcuni osservatori hanno interpretato la crisi siriana come un colpo fatale per la Russia, sostenendo che la fine di Bashar al-Assad metta a rischio i “sogni imperiali” di Vladimir Putin.

Altri hanno ipotizzato che la presa di Damasco ad opera dei jihadisti guidati da Abu Mohammad al-Jolani avvicini la fine della guerra in Ucraina. Entrambe le letture sono riduttive.

Mosca rinuncia ad Assad, non alla Siria

In primo luogo, molti elementi dicono che la Russia, pur non rallegrandosene, abbia di fatto accettato la caduta di Assad. Ma non sia disposta a ridurre la sua presenza in Siria, che per ora non è messa in discussione.

Più che sulla immutabilità dei regimi, la strategia del Cremlino segue l’obiettivo di adattarsi alle nuove condizioni per mantenere influenza in zone di interesse militare prima ancora che politico.

La storia recente offre numerosi esempi di un pragmatismo che richiama la Pax Romana. Mosca non insiste su un leader specifico in un’area considerata strategica, purché chi vi prenda il potere non si dimostri ostile ai suoi interessi.

Vista da questa prospettiva, la crisi siriana rivela per il Cremlino un quadro complessivo che va ben oltre la semplice questione della leadership di Assad e riguarda l’importanza strategica che ricoprono le basi militari russe in Siria: Tartous (navale) e Khmeimim (aerea).

Pilastri essenziali per la sua proiezione di potenza nel Mediterraneo, è probabile che Mosca farà di tutto per cercare di mantenerle.

L’avanzata dei ribelli siriani, priva di resistenza significativa e con una curiosa assenza di attacchi contro le basi russe, suggerisce che dietro le quinte ci sia stata una negoziazione con Ankara. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha probabilmente fornito garanzie a Mosca sul mantenimento della sua influenza strategica nella regione.

In quest’ottica, rinunciare al pieno controllo sul regime di Assad è un compromesso accettabile per mantenere la propria presenza strategica in Medio Oriente senza disperdere risorse preziose per tenere in piedi un regime politico oramai irrimediabilmente logoro. Scioltosi come neve al sole in meno di una settimana.

L’uscita di scena di Assad segna per il Cremlino non la chiusura del capitolo siriano, ma una ridefinizione delle alleanze che garantiscono la presenza russa nel Medio Oriente.

Mosca cercherà di negoziare con Washington e Ankara una sorta di smembramento del territorio siriano, assicurandosi il controllo su un’area sulla costa mediterranea a presenza alawita e cristiana, dove si trovano le suddette basi militari.

Jihad buono vs Jihad cattivo

Il punto è che nella nuova mappa del Medio Oriente, non vi è certezza della tenuta di nessun accordo. Più facile che venga rispettato dai vertici piuttosto che dagli attori sul campo. Le faide tra i vari gruppi e le prevedibili vendette dei sunniti contro gli alawiti, che per decenni hanno dominato sotto Assad, sono fattori di instabilità difficili da controllare.

Figlia del caos globale seguito all’eclissi del multilateralismo, questa crisi ripresenta l’ennesima incognita dell’imprevedibilità del jihadismo.

Da un lato, la recente visita dei talebani a Mosca per avviare dialoghi diplomatici ci dice che non c’è nulla che impedisca alla Russia di trovare accordi con altre forze locali in Siria, anche di matrice jihadista, pur di salvaguardare i propri interessi.

Dall’altro, proprio il caso dell’Afghanistan ricorda al meglio come nelle sue espressioni più estremiste, consistenti frange dell’Islam politico non riconoscano il concetto di Stato-nazione. E non si facciano imbrigliare nelle dinamiche di influenza geopolitica delle varie potenze di gioco, non importa se americane, russe o turche.

Lukashenko è più importante di Assad

La crisi siriana è una pedina in un gioco più ampio, in cui Mosca ricalibra le sue risorse per affrontare le sfide più pressanti. Prima fra tutte la guerra in Ucraina.

Le risorse della Russia non sono inesasuribili e un veloce ri-orientamento delle priorità si rende necessario dopo la grande accelerazione delle vicende sul teatro mediorientale, che hanno sorpreso anche gli strateghi del Cremlino.   

Pensare che il disimpegno russo in Siria (per ora, più politico che militare) possa tradursi in una distensione sul fronte ucraino è azzardo anche maggiore. Per dirla con una battuta, nello scacchiere attuale per Mosca la tenuta del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko è molto più importante di quello siriano.

La decisione di scaricare Assad sottolinea la determinazione del Cremlino a concentrare ogni sforzo sul conflitto con Kyiv, considerato vitale per il futuro della leadership russa. Il che complica, piuttosto che semplificare, le prospettive di un accordo per porre fine ad un conflitto dove Mosca sta avendo la meglio sul terreno.

Un negoziato difficile quindi, in salita. Con le parti desiderose di arrivare ad una agognata normalizzazione dei rapporti ma bloccate in un gioco dei ruoli da cui non riescono a smarcarsi. Il Cremlino non può permettersi una vittoria mutilata, ma percepisce i costi sociali ed economici di una guerra che sta lasciando il segno, mentre la crescente influenza cinese preoccupa la classe dirigente russa.

L’Occidente, e in particolare l’Europa, ha fretta di chiudere per fermare l’erosione della legittimità sul piano interno che minaccia le leadership al potere e addirittura la tenuta dell’intero sistema liberal-democratico.

Come esemplifica al meglio l’inquietante episodio delle elezioni presidenziali cancellate in Romania. O il cambio radicale di rotta che la crisi politica a Parigi ha determinato nel Presidente francese. Con Emmanuel Macron passato in pochi mesi dall’invocare l’invio di truppe europee al fronte ucraino al cercare di rilanciarsi come mediatore di pace. Facendosi fotografare tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky alla cerimonia di riapertura della cattedrale di Notre Dame.

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