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“Non sono d’accordo con quel che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. Questa frase, ricondotta a Voltaire, è il pilastro di ogni democrazia liberale. Non esiste libertà di autodeterminazione allorquando gli individui sono limitati nella manifestazione del proprio pensiero.

Le parole di Alessandra Laterza, titolare della libreria di Roma che non vende l’autobiografia di Giorgia Meloni, perché considera il suo spazio luogo di “resistenza”, sono contrarie ad ogni valore di convivenza civile.

Presunzione di maggior dignità politica delle proprie posizioni ideologiche, negazione del pluralismo, banalizzazione di un fenomeno storico cruciale e, allo stesso tempo, drammatico per la vita di tutti gli italiani. Una breve dichiarazione, ma sufficiente a demolire i principi accolti dalla nostra Costituzione, proprio a seguito della lotta al fascismo.

Non si contesta la scelta della libraia di non vendere l’autobiografia, libera valutazione di sua competenza – pur in un luogo che essendo dedicato alla cultura dovrebbe essere pluralista – bensì i gravi motivi addotti. Qualificare le proprie operazioni di mercato come resistenza, postula che il libro di Giorgia Meloni è manifestazione di “fascismo”.

Un segno di intolleranza, purtroppo ricorrente in taluni pseudo intellettuali di questo Paese, che è esso stesso espressione di discriminazione nei confronti del diverso. Il mainstream da decenni taccia come fascista tutto ciò che è lontano da sé, definisce pericoloso chi porta avanti una diversa visione della società, tenta di tappar la bocca a chi muove obiezioni. Un curioso, per non dir terrificante, cortocircuito: coloro che dichiarano di portare avanti una battaglia contro il fascismo ricorrono a condotte che richiamano talvolta proprio quel periodo storico.

Il focus non è se si debba condividere o meno il pensiero della leader di FdI, che notoriamente non è quello di chi qui scrive; si tratta di decidere se Giorgia Meloni è legittimata a far politica e a raccontare le proprie esperienze di vita come ogni altro cittadino. La risposta è certamente sì. Il passaggio dalla dittatura alla libertà trova espressione nel diritto di ognuno di noi a partecipare alla vita pubblica.

Definire fascista chi esercita una libertà fondamentale sancita in ogni Costituzione liberale-moderna è un segno di intolleranza che ricorda le stagioni più oscure del nostro passato, che non vogliamo ritorni più. Migliaia di donne e uomini persero la vita per opporsi a una dittatura liberticida, che ha messo al bando partiti, sindacati, giornali; che ha recluso e ucciso gli oppositori politici, che ha mandato al macello essere umani perché ebrei, omosessuali, diversi. Questo è stato il fascismo e lo si deve raccontare ogni giorno nelle scuole, nei luoghi e negli istituti di cultura, negli autobus, per strada. Si conservi vivo il ricordo di ciò che realmente è stato, perché abusarne l’espressione significa sminuirne la drammaticità.

Libera la libraia di fare quello che ritiene più opportuno, liberi noi di criticare senza essere insolentiti. Si chiama democrazia.

 

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La titolare di una libreria di Roma ha deciso di non vendere l’autobiografia di Giorgia Meloni perché considera il suo spazio luogo di “resistenza”. Ma non si contesta la scelta della libraia di non vendere il volume, libera valutazione di sua competenza, bensì i motivi addotti. Libera la libraia di fare quello che ritiene più opportuno, liberi noi di criticare senza essere insolentiti. Si chiama democrazia. L’intervento di Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi

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