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L’Europa accelera sui semiconduttori. La produzione di microchip è diventata una priorità per la Commissione Europea. Lo ha ribadito nei suoi incontri romani con il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e il premier Mario Draghi il Commissario europeo al Mercato Interno, Thierry Breton.

Entro il 2030 la produzione europea deve passare dal 10 al 20% della quota mondiale, come prevede la “Bussola digitale 2030”, la “mappa” della transizione digitale stilata dalla Commissione. L’Italia può e deve fare la sua parte, spiegano da Bruxelles.

Durante l’incontro a Via Molise Giorgetti ha ribadito l’intento del governo di lanciare “un piano straordinario di sostegno agli investimenti” in cui le imprese italiane “potranno svolgere un ruolo di prima fila grazie alle loro capacità e competenze”. Tradotto: lo Stato scenderà in campo con misure ad hoc per rilanciare la produzione in Italia.

È un punto dirimente della corsa globale ai microchip, i circuiti elettrici di pochi millimetri di diametro che permettono il funzionamento di gran parte dei dispositivi elettronici su cui si reggono interi mercati, dall’automotive all’hi-tech. Dopo lo shock della pandemia sulle catene di fornitura asiatiche ed europee, i chip sono diventati il bene tecnologico più ambito e si è scatenata una vera e propria gara internazionale per accaparrarsi i principali siti di produzione.

L’Ue ha lanciato lo scorso inverno un Ipcei (un progetto di investimento comune) sui microchip e i 27 Stati membri hanno firmato a dicembre l’“Iniziativa europea per i processori e i semiconduttori”. Breton, che è anche a capo della Taske force europea sui vaccini, ha seguito da vicino il dossier, incontrando i principali player internazionali del settore.

Anche l’Italia si è mossa, a partire dal campione italo-francese dei microchip, STMicroelectronics. Nel Pnrr è previsto un primo stanziamento di 850 milioni di euro per un impianto di produzione di chip in carburo di silicio in provincia di Catania, cui si aggiunge la recente inaugurazione alla presenza di Giorgetti di una fabbrica del valore di 1.6 miliardi di euro ad Agrate, in Brianza.

Queste cifre, però, potrebbero non bastare. Per competere con il mercato asiatico e avviare la produzione di chip di ultima generazione (sotto i 10 nanometri) servono investimenti di scala di molto superiori ed è inevitabile prevedere un supporto pubblico: una bella gatta da pelare per gli Stati membri alle prese con le regole antitrust della Commissione Ue.

Trovare un equilibrio fra tutela della concorrenza e un necessario supporto pubblico è uno dei nodi più intricati da sciogliere per i Paesi occidentali. Gli Stati Uniti di Joe Biden hanno già preso l’iniziativa: il “Chips Act” approvato da una coalizione bipartisan al Congresso ha messo sul tavolo 50 miliardi di dollari in sovvenzioni.

Un ruolo cruciale, va da sé, spetta al settore privato. Diversi in questi mesi gli incontri di Breton con i principali produttori europei e internazionali, dalla taiwanese TSMC alle olandesi Nxp e Asml. Fra gli altri, in prima fila c’è Intel, colosso americano leader nella produzione di semiconduttori.

Il Ceo Pat Gelsinger ha incontrato più volte il Commissario francese e in un recente tour europeo è stato in visita in Italia, Francia e Germania. A Roma a fine giugno ha incontrato Draghi e Giorgetti. In ballo c’è la costruzione di un investimento del valore complessivo di 100 miliardi di dollari per una mega-fabbrica di chip da 6-8 moduli, dal costo di 10-15 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. Anche qui, ha messo in chiaro il numero uno dell’azienda statunitense, serve un supporto pubblico: “I leader europei devono investire per assicurare un’industria dei semiconduttori vibrante”.

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