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La Storia insegna che non esiste un acceleratore tecnologico più efficace della guerra. L’ultimo conflitto mondiale, scrivono Christopher Ankersen e Mike Martin su MIT Technology Review, iniziò con aerei biplano e assalti di cavalleria ma finì con radar, razzi V2, caccia e l’atomica. Segnò anche l’inizio della rivoluzione informatica con la decrittazione di Enigma.

Eppure – com’è diventato evidente nelle scorse settimane con la conquista talebana dell’Afghanistan – la supremazia tecnologica non si traduce necessariamente in superiorità bellica. “La tecnologia non è il motore del conflitto, né una garanzia di vittoria”, rimarcano gli autori, “piuttosto, è un fattore abilitante”.

Effettivamente è legittimo chiedersi come abbia fatto l’esercito afghano, dopo anni di addestramento impartito dalle forze americane e Nato e forte delle dotazioni belliche occidentali, a opporre così poca resistenza a un gruppo di integralisti solitamente equipaggiati con un Kalashnikov, una radio e poco altro. La risposta ha anche a che fare con l’innovazione tecnologica. A conti fatti, spiegano gli autori, i vent’anni di intervento occidentale in Afghanistan hanno fatto fare un salto tecnologico impressionante ai talebani.

Attenzione: il fattore determinante non è la sofisticazione dei “nuovi” strumenti in mano al gruppo integralista, quanto piuttosto la loro efficacia. Sul lato bellico, spiega la rivista dell’università bostoniana, l’Occidente ha combattuto una guerra “di scelta”, cercando di minimizzare l’esposizione dei propri militari al pericolo (quindi investendo in droni e ricognizione aerea). Per i talebani, invece, si trattava di un conflitto esistenziale. Fronteggiando un esercito tecnologicamente superiore, si sono dovuti adattare.

In questi vent’anni i miliziani, gli stessi che negli anni Novanta bandirono internet per motivi religiosi, hanno imparato a sfruttare a loro vantaggio la telefonia mobile (ironicamente operativa grazie agli investimenti americani nelle infrastrutture di telecomunicazione).

Hanno iniziato a innescare via telefono le bombe piazzate a lato della strada (causa del maggior numero di morti alleate). Soprattutto, i talebani hanno intuito il potenziale della tecnologia digitale per le comunicazioni strategiche e le campagne di influenza. Nell’infosfera talebana finivano i video delle esplosioni per tenere alto il morale e favorire il reclutamento, ma anche messaggi di sostegno e contenuto creato per mettere in buona luce il gruppo estremista. Nel 2016 hanno persino lanciato un’app per amplificare tutto questo.

Ora che sono a Kabul, gli integralisti afghani hanno lanciato una charm offensive attraverso i social. L’operazione è pensata per raggiungere gli afghani (si stima che il 70% della popolazione abbia accesso a un cellulare) come anche il resto del mondo. Su internet i portavoce dei talebani mostrano un lato empatico e comprensivo per legittimarsi come veri leader.

Rispondono alle critiche sui social e alle testimonianze di violenze, rappresaglie ed esecuzioni fuori dalla capitale con appelli alla pace e promesse di moderazione, verso le donne, verso i filo-occidentali che cancellano la propria vita digitale per timore di ripercussioni. Intanto un apparato periferico di giornalisti e utenti pro-regime (più qualche bot per buona misura) diffonde e amplifica propaganda talebana.

Di fronte alle immagini agghiaccianti in arrivo dall’aeroporto di Kabul uno degli influencer pro-talebani più in voga, Qari Saeed Khosty, ha risposto con compassione: “Ho pianto tanto vedendo la situazione. Voi, gli amici dell’occupazione, abbiamo pianto per voi allo stesso modo per 20 anni. Vi abbiamo detto che Tommy Ghani non vi sarebbe mai stato fedele”, ha scritto in un post su Twitter, riferendosi al presidente in fuga Ashraf Ghani utilizzando un’espressione delegittimante per sottolineare la sua vicinanza con gli Usa. “Vi abbiamo perdonato, lo giuro su Allah. Non siamo per questa situazione. Per favore, tornate nelle vostre case”.

Si tratta di un’operazione mediatica che in ambienti Nato sarebbe stata classificata come guerra ibrida, se gli occidentali e le autorità afghane si fossero concentrati sul rispondervi adeguatamente. Come notano Ankersen e Martin, le priorità dell’Occidente sono altre, hanno a che fare con il confronto con le grandi potenze, con l’intelligenza artificiale e con i missili ipersonici.

Frontiere della tecnologia che esistono parallelamente a un mondo in cui, con Kalashnikov e cellulari, un gruppo di integralisti islamici ha conquistato un Paese in poco più di una settimana. “Anche le armi rudimentali possono [fare progredire i piani di] umani motivati e pazienti, che sono pronti a – e in grado di – compiere qualunque progresso gli sia richiesto”.

Stando agli autori, l’esperienza in Afghanistan offre uno scorcio delle battaglie del domani. “Vedremo meno conflitti puramente tecnologici vinti dai militari con la maggiore potenza di fuoco, e più vecchie e nuove tecnologie messe in campo fianco a fianco. Sembra già così in conflitti come quello tra Armenia e Azerbaigian […]. Forse la tecnologia non porta più a vincere le guerre, ma l’innovazione può, in particolare se una parte sta combattendo una battaglia esistenziale”.

Ibrida e (molto) tech. L'altro volto della guerriglia talebana

“Forse la tecnologia non porta più a vincere le guerre, ma l’innovazione può, specie se una fazione sta combattendo una battaglia esistenziale”. La coalizione occidentale aveva più risorse, ma sono stati i talebani a sfruttare appieno il progresso tecnologico

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