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Su Repubblica, al termine della scorsa settimana, Stefano Folli ha correttamente distinto l’”europeismo prammatico” di Mario Draghi, che quando ritiene necessario alza una voce critica nei confronti delle istituzioni dell’Unione europea (Ue), da quello “ideologico” di Enrico Letta: distinzione non vuole dire contrapposizione ma specificazione che due differenti sensibilità hanno uguale posto ed uguale dignità nella comune “casa europea”.

L’editoriale del settimanale The Economist del 3-9 aprile, una testata britannica da sempre favorevole all’integrazione europea, è una dura analisi di come la Commissione europea – ed il piccolo gruppo di Stati membri che la hanno coadiuvata nell’operazione – ha trattato la lotta alla pandemia, specialmente i negoziati con le aziende farmaceutiche per le provvista di vaccini; l’editoriale sostiene, tra l’altro, che, ove fosse un componente di un governo nazionale, Ursula von der Leyen “non sarebbe rimasta nel suo incarico” e che la vicenda dei vaccini darà indubbiamente forza a coloro che vogliono cambiare l’Ue. The Economist conclude che leader politici, come Marine Le Pen, che proponevano di uscire dall’Ue, ora aspirano, invece, a cambiarla.

Giovedì scorso, si sono incontrati a Budapest Viktor Orbán, primo ministro ungherese, Mateusz Morawiecki, primo ministro della Polonia e rappresentante del partito Diritto e giustizia (PiS), e Matteo Salvini, il leader della Lega, per dare vita a un “rinascimento europeo” basato sui valori tradizionali e conservatori e basato su “atlantismo, libertà, famiglia, cristianesimo, sovranità e opposizione all’antisemitismo”.

Siamo negli anni più bui dell’integrazione europea. Al 31 marzo, solo il 14% dei cittadini dell’Ue avevano avuto una dose di vaccino, rispetto al 38% degli americani ed al 58% dei britannici. Mentre nel quarto trimestre del 2020, gli Stati Uniti segnavano un tasso annuo di crescita del 4,1%, l’Ue segnava una contrazione su base annua attorno al 5%. La crisi vaccinale ha inferto un duro colpo alle istituzioni dell’Ue, specialmente alla Commissione: non riconoscerlo, equivarrebbe a tapparsi occhi ed orecchie.

È in questo contesto che occorre chiedersi se per il presente e soprattutto per il futuro del processo d’integrazione europea si debba puntare su una unica visione di “europeismo” o su quella di una gamma di “europeismi” in competizione leale tra loro.

La prima visione pare riduttiva, pericolosa e destinata al fallimento. È riduttiva perché difficile incapsulare in un’unica categoria letture del presente e del futuro dell’Europa di tante nazioni con storie, culture e tradizioni differenti. È pericolosa perché pone il problema di chi redige ed applica il protocollo per definire chi è “europeista” e chi non lo è; chi si definisce come unico interprete di cosa vuol dire essere “europeista” ha probabilmente tendenze autoritarie e può arrivare a discriminare come “non-europeisti” tenaci sostenitori dell’integrazione europea che tuttavia su alcuni punti differiscono dal “pensiero dominante” e dalle impostazioni della Commissione europea. È destinata al fallimento perché si pone inevitabilmente sulle difensiva e guarda più al passato che al futuro. Nel ventunesimo secolo, è difficile basarsi unicamente o principalmente su una concezione dell’integrazione europea nata nella ultima fase della seconda guerra mondiale e sviluppatasi principalmente come veicolo per evitare che una nuova guerra tra europei si verificasse.

Le tematiche su cui costruire ora l’integrazione europea sono differenti da quelle di allora: il ruolo dell’Europa nella nuova “guerra fredda” (quella tra Stati Uniti e Cina) e in quel-che-resta della “vecchia” (quella tra Occidente liberal-democratico e Russia): la funzione dell’Europa in un mondo sempre più integrato (nonostante la battuta d’arresto provocata dalla pandemia); l’apporto dell’Europa in materia di freno al cambiamento climatico, pressioni migratorie soprattutto dall’Africa e quindi dirette a quello che un tempo veniva chiamato il Vecchio Continente; il contributo dell’Europa alla prevenzione di nuove pandemie; come rivitalizzare la crescita economica in un continente che sembra diventato anemico. Queste sono solo indicazione parziali dei temi.

Sono vasti e complessi. È naturale che ci siano se non visioni, sensibilità differenti. Le ricette migliori per politiche, strategie, programmi, misure, è auspicabile che vengano forgiate da una competizione tra queste sensibilità.

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Siamo negli anni più bui dell’integrazione europea. È in questo contesto che occorre chiedersi se per il presente e soprattutto per il futuro del processo d’integrazione europea si debba puntare su una unica visione di “europeismo” o su quella di una gamma di “europeismi” in competizione leale tra loro. Il commento di Giuseppe Pennisi

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