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Same old story: l’ennesima crisi di leadership mette a nudo il Movimento 5 stelle, rivelando tutte le sue fragilità. Lo scontro tra Giuseppe Conte, leader in pectore, e Beppe Grillo, fondatore ed “Elevato”, racconta molto di più della nota difficoltà dei vecchi leader politici italiani a capire se, quando e come farsi da parte, e racconta di più della fatica che fa una classe dirigente legata in modo profondo ai meccanismi della politica del potere per svolgere un passaggio di leadership in modo dolce; lo stallo tra l’ex presidente del Consiglio, leader politico che gode della fiducia del 68% degli italiani, e l’ex comico, che invece si ferma al 12% (dati dell’ultimo Atlante Politico di Demos), apre uno squarcio sulle logiche di identità politica su cui il M5S deve fare i conti da tempo.

Grillo, evidentemente, è un leader esplosivo: spesso sopra le righe, capace di catalizzare l’attenzione mediatica grazie ad anni di palchi calcati in giro per l’Italia, ha saputo inventare una forma di leadership orientata a quella che i latini chiamerebbero pars destruens: spazzare via tutto e tutti, annullare la vecchia classe politica e dirigenziale, aprire il parlamento come scatolette di tonno, tagliare i privilegi di una “kasta!” che si autoalimenta nel buio dei palazzi. Messaggi forti, che parlano agli scontenti della politica, a chi fino a quel momento non aveva più una guida rappresentativa, a un elettorato probabilmente stanco tanto del berlusconismo che dell’antiberlusconismo, stufo di vecchi linguaggi, slogan, pronto ad affidarsi a figure extrapolitiche che, però, di politica si sono sempre occupate. In questo contesto, dal popolo viola in poi, Grillo seppe interpretare un disagio trasversale più che cercare un posizionamento vero e proprio, traducendolo con le istante del Movimento e costruendo tutto il progetto (dalla selezione dei portavoce agli spazi di democrazia partecipativa, dal nome e i simboli alle parole d’ordine) sulla base di una vision: dare voce all’elettorato disilluso. Un progetto visionario, come direbbe lui, cui serviva una leadership forte, visionaria, rumorosa, sopra le righe.

Per Conte, invece, il processo è stato quasi l’opposto. Per lo più sconosciuto fino a pochi giorni prima delle elezioni del 2018, quando Luigi Di Maio, al tempo leader politico del Movimento 5 stelle, lo inserì nella irrituale lista di un suo futuribile governo indicandolo come papabile ministro della Pubblica amministrazione. Docente, avvocato, senza precedenti esperienze politiche, sconta da sempre una vera e propria fatica nel definirsi e nell’identificare una seppur vaga identità politica: da “avvocato del popolo” del governo gialloverde, dall’“io sono populista” della festa della Lega all’essere il punto di riferimento dei progressisti, ha attraversato tre anni, due governi e svariate crisi (politica, prima; sanitaria, economica e sociale, poi; interna al suo movimento, oggi) fino all’ultima, fatale, indotta da un altro Matteo. Multiforme e mutevole, Conte ha fatto sua la capacità di trasformare i propri riferimenti in virtù del contesto che cambia, rendendosi capace di fare qualcosa che Grillo non è più stato in grado di fare: allargare la base, essere nelle istituzioni in modo credibile senza apparentemente soccombere al paradosso di chi nasce incendiario e muore pompiere.

I tratti della sua leadership emergono anche nello scontro col fondatore del Movimento: un’attenzione quasi maniacale per la costruzione del proprio posizionamento personale, attraverso l’abbigliamento, i gesti, le frasi a effetto. Sobrio, istituzionale, attento alle parole quanto ai silenzi, calibrato nel creare attese e attenzione su di sé anche attraverso la scelta attenta dei tempi e dei luoghi. Una cura e una programmazione che, forse, tradiscono invece una scarsa solidità nel definire una proposta politica, un’identità sociale e culturale, un programma elettorale e di indirizzo. Si ha quasi la sensazione che a domande come “quali sono le differenze tra Conte e Grillo sull’indirizzo politico delle proposte del Movimento? In cosa differiscono nelle soluzioni alla nuova disoccupazione? Come intendono risolvere le questioni di genere? In che modo differiscono su questioni come la scuola, le infrastrutture, l’ambiente?” l’unica risposta sia boh.

Un boh che lascia emergere quanto questa sfida sia di potere, non di progetti politici. Politica pura, con due poli contrastanti che si contendono il potere e che raccontano due modi di essere Movimento, e parlano a (almeno) due tipi di elettorato molto diversi.

Consenso. Potere. Poltrone. Insomma, politica. Una politica, forse, un po’ lontana dall’elettorato dei 5 Stelle (e soprattutto dagli italiani).

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