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Fa bene Giampiero Massolo, oggi sul Corriere della Sera, a richiamare l’attenzione sul caos libico. Ma bisogna spingersi oltre: quel caos non è un imprevisto della storia, bensì il frutto diretto di scelte sbagliate, ingenuità strategiche e un grave deficit di capacità operativa da parte dell’Occidente. La Libia non è una vittima del destino: è la dimostrazione di cosa succede quando ci si illude di cambiare il Medio Oriente con le buone intenzioni, dimenticando la necessità — talvolta brutale, ma imprescindibile — dell’uso della forza.

Tutto comincia nel 2011, con la caduta di Gheddafi. Una guerra lampo voluta dalla Francia di Sarkozy, sostenuta dagli Stati Uniti di Barack Obama (e dall’entusiasmo idealista per le primavere arabe), ma senza un disegno di ricostruzione post-bellica. Il risultato? Uno Stato svanito, un’arena dove si affrontano bande armate, jihadisti, trafficanti di esseri umani e potenze straniere. Senza alcun ordine, senza sovranità, senza pace.

E proprio lì, in quel vuoto lasciato dall’Occidente, si sono inseriti attori che ordine lo impongono con le armi. La Russia ha messo radici con Wagner (oggi formalmente riorganizzata ma sempre attiva sul campo), operando al fianco di Khalifa Haftar e garantendosi una proiezione strategica nel cuore del Mediterraneo. La Turchia, con una presenza militare permanente a Tripoli e Misurata, sostiene invece il governo rivale di Abdul Hamid Dbeibeh. Due potenze rivali che trattano la Libia come un protettorato da contendersi, mentre l’Europa guarda — e tace.

Gli Stati Uniti? Dopo aver abbandonato il campo, sono rimasti con il ricordo amaro di un episodio che avrebbe dovuto far scuola. L’11 settembre 2012, a Bengasi, viene assassinato l’ambasciatore americano Christopher Stevens, assieme ad altri tre funzionari. Era la testimonianza drammatica che la Libia era fuori controllo già allora. Ma invece di reagire con un cambio di rotta, Washington — travolta dall’ideologia obamiana — ha continuato a cullarsi nell’illusione che bastassero i Fratelli Musulmani a “democratizzare” il mondo arabo.

Oggi, a distanza di tredici anni, il Paese è più che mai instabile. La morte del comandante Abdelghani al-Kikli, detto “Ghneiwa”, ha acceso nuovi scontri a Tripoli tra le sue forze e la Brigata 444. Il premier Dbeibeh tenta di centralizzare il potere, sciogliendo milizie rivali e riformando le forze di sicurezza. Ma il suo è un disegno di parte, non uno schema nazionale. Il governo parallelo di Bengasi, intanto, minaccia di bloccare la produzione di petrolio dichiarando lo “stato di forza maggiore”, accusando attacchi alla compagnia nazionale Noc (che smentisce tutto). Il rischio è concreto: il petrolio è l’ultimo vero asset rimasto e senza di esso il Paese rischia il collasso definitivo.

Per l’Italia, questo non è un dossier secondario. L’Eni è da sempre protagonista in Libia, con impianti e investimenti fondamentali per la nostra sicurezza energetica. Nel 2023 è stato firmato un maxi accordo da 8 miliardi di dollari per nuovi giacimenti offshore. Ma oggi quegli interessi sono in pericolo, minacciati non solo dalle milizie locali, ma dalla crescente influenza turca e russa. A Tripoli si muove Ankara. A Sirte e nel Fezzan si impone Mosca. E l’Eni? Resiste. Ma da sola non basta.

La verità, dura ma necessaria da ammettere, è che l’Occidente ha abdicato al ruolo di potenza ordinatrice. Non abbiamo uomini sul terreno, né volontà politica. Abbiamo appaltato la gestione del caos ad altri, illudendoci che qualche conferenza a Ginevra potesse bastare. Invece serve forza. Non per seminare guerra, ma per garantire equilibrio, deterrenza, stabilità.

La Libia è lo specchio delle nostre illusioni: ci mostra quanto siamo diventati deboli, quanto contiamo poco in regioni dove un tempo bastava un segnale per farsi rispettare. Ora non basta più neanche una nota ufficiale. E se non cambiamo rotta, perderemo anche la voce.

Libia, specchio delle nostre illusioni: senza forza, niente ordine. Scrive Arditti

La verità, dura ma necessaria da ammettere, è che l’Occidente ha abdicato al ruolo di potenza ordinatrice. Non abbiamo uomini sul terreno, né volontà politica. Abbiamo appaltato la gestione del caos ad altri, illudendoci che qualche conferenza a Ginevra potesse bastare

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