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Il Carrier Strike Group britannico è “pronto a condurre operazioni” contro lo Stato islamico. Lo aveva dichiarato il comandante, il contrammiraglio Steve Moorhouse, durante un’intervista con Formiche.net a bordo della HMS Queen Elizabeth, la più grande portaerei della flotta britannica e d’Europa che guida il gruppo d’assalto, partita a fine maggio da Portsmouth e fermatasi nel porto siciliano di Augusta nei giorni scorsi, prima tappa di una traversa di 7 mesi e mezzo, direzione Indo-Pacifico su una rotta di 26.000 miglia.

In particolare, gli F-35B dei Dambuster, la squadriglia 617 della Royal Air Force, forniranno “un supporto tangibile e di impatto alle operazioni anti Daesh in Iraq e Siria”, come si legge in una dichiarazione di maggio del ministero della Difesa di Londra. I jet “avranno un forte impatto contro Daesh e aiuteranno a impedire che riprenda piede in Iraq. Questo è un buon esempio delle forze armate britanniche che si fanno avanti con i nostri alleati per affrontare minacce persistenti in tutto il mondo. È la Global Britain in azione”, si legge ancora in una nota che sembra evidenziare quella che il ministro Ben Wallace ha definito, intervistato da Formiche.net, una dimostrazione sia di soft power sia di hard power.

Nei giorni scorsi, dopo le esercitazioni condotte al largo della Sicilia con Italia, Stati Uniti e Israele, il contrammiraglio Moorhouse ha offerto alcune informazioni sull’impegno del Carrier Strike Group britannico nella lotta contro lo Stato islamico sottolineando il passaggio dall’“influenza diplomatica attraverso esercitazioni e impegni” al “pugno duro” della forza aerea via mare.

Lo Stato islamico, come dimostra l’impegno britannico, è ancora una minaccia, che per altro grava sempre più in un’area ampia che dal cuore mediorientale del Siraq califfale si è andata a estendere verso occidente, tra Nord Africa, Sahel e Africa centrale — come raccontano anche le recenti scorribande nel Fezzan. Tema al centro della discussione che il 28 giugno sarà ospitata alla Fiera di Roma, con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che co-presiederà insieme al segretario di Stato statunitense, Anthony Blinken, la riunione della Coalizione anti Daesh.

Appuntamento atteso, a distanza — causa Covid-19 — di oltre due anni dalla precedente riunione in formato ampio del febbraio 2019. Se gli Stati Uniti sono il motore principale dell’operazione con cui le forze unite di dozzine di Paesi hanno disarticolato la dimensione statuale del Califfato, Italia e Regno Unito (e Francia) sono certamente attori di primo piano: sia per capacità militare, sia per impegno sul campo e competenza nel costruire relazioni socio-politico-culturali all’interno dei Paesi in cui sacche baghadadiste restano attive — e il contatto con la popolazione, l’aiuto economico e l’assistenza allo sviluppo socio-culturale sono il principale elemento per tenere le istanze jihadiste lontane dalla popolazione.

Poche settimane fa in Kuwait c’è stato l’avvicendamento tra i Tornado italiani del gruppo “Devil” e gli EF200A del Task Group Typhoon. I dati della Difesa parlano chiaro a proposito dell’impegno italiano nella lotta terrorismo già solo considerando le 38.000 ore di volo, le circa 7.000 sortite e più di 31.000 obiettivi ricogniti. Impegno da abbinare con quello delle forze di terra, come l’addestramento dei peshmerga, la presenza corposa nella missione Nato in Iraq (di cui l’Italia potrebbe avere la leadership) e dell’attenzione — anche tramite coinvolgimento in attività militari — alle dinamiche del Sahel.

È in quella che la neo-nominata rappresentante speciale Ue per la regione, l’ex viceministra Emanuela Del Re, ha definito su queste colonne la “vera frontiera dell’Europa”, che attualmente si muovono le più preoccupanti dinamiche collegate al jihadismo globale, innescato dalla potenza della predicazione del defunto Califfo. Non a caso sulla regione si rivolgono le attenzioni anche di Paesi come il Regno Unito, apparentemente distanti, ma interessati al controllo delle dinamiche terroristiche da cui sono stati feriti in passato.

E non a caso alcuni Paesi africani sono stati invitati come osservatori alla riunione di Roma, dove si discuterà come i partner più grandi possono/devono aiutare a bloccare la propagazione del jihadismo in Africa e la necessità di contrastarne il radicamento nelle aree più fragili del continente. Storia paradigmatica: la recente vicenda della morte del capo dei Boko Haram, Abubakar Shekau, che secondo le conferme dei bokisti si sarebbe ucciso per non essere catturato dal gruppo jihadista rivale, la branca locale dello Stato Islamico (Iswap, acronimo internazionale per provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico).

La vicenda di Senkaku racconta anche della comunicazione agghiacciante con cui i baghdadisti dell’Iswap hanno annunciato l’eliminazione del leader del sanguinoso gruppo nigeriano, descritta come un’azione per rendere giustizia su un efferato criminale contro cui il governo nigeriano da anni non era stato capace a intervenire. Pericolosa sostituzione degli uomini dell’Isis allo stato regolare che può trovare spazi tra la popolazione che effettivamente per anni ha vissuto sotto il terrore dei bokisti — da cui tuttavia l’Iswap deriva.

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