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Dal 20 gennaio 2021, giorno dell’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, negli Stati Uniti si è respirata immediatamente un’aria nuova. Grazie alla sue pluridecennale esperienza politica e agli otto anni da Vice Presidente, nonché conscio di avere solo due anni a disposizione prima delle prossime elezioni per il Congresso, Biden è partito a passo di marcia e sta andando come un treno.

Domesticamente, Biden ha capito che il Covid è un evento epocale, destinato a marcare il futuro del mondo, e sta approfittando della crisi post-Covid per disegnare l’America del futuro, a partire dalle infrastrutture.

Se, come alcuni dicono, il Covid, non è solo un evento naturale e/o l’obbiettivo del ritardo nella comunicazione da parte della Cina era quello di far saltare l’America, ha decisamente avuto l’effetto inverso.

Senza parlare della vaccinazione, che in molti Stati – anche Repubblicani – è ormai ben oltre la soglia del 70%. Incastrata nelle sabbie mobili delle burocrazie europee e nazionali, l’Europa sta invece tristemente perdendo la sfida con il futuro.

In politica estera, Biden si è circondato di molte persone che avevano già rivestito ruoli di rilievo nell’Amministrazione Obama. Questo ha avuto il chiaro vantaggio di poter essere, anche qui, operativi fin dal primo giorno. Il primo risultato visibile è stato il rientro nell’Accordo di Parigi sul clima, grazie a John Kerry.

D’altra parte, però, questo ha implicato una serie di retaggi, in particolare su aree di interesse per l’Italia come la Libia e la Russia. Sulla Libia, Biden si è limitato alla classica pacca sulla spalla durante la sua bilaterale con Draghi. Se (se) qualcosa salterà fuori per il nostro paese lo si vedrà solo dopo l’incontro tra il presidente Americano e quello Turco, Recep Erdogan, l’ormai vero king-maker.

Sulla Russia, da sempre bestia nera di Victoria Nuland, una che non ha mai amato l’Italia e adesso è sottosegretario per gli affari politici – dopo il lapsus nell’intervista con George Stephanopoulos – Biden ha strategicamente puntato all’antagonismo, essendo un nemico ampiamente interiorizzato dal popolo americano, e quindi in grado di unire Democratici e Repubblicani.

L’incontro con Putin ha quindi sollevato molti sopraccigli a Washington, ma – da politico esperto qual è – Biden sa perfettamente che sono troppe le questioni internazionali – in primis l’Iran – che non possono essere risolte che grazie ad una stretta collaborazione con la Russia. È facile immaginare tuttavia che durante la bilaterale con l’Italia sia stato sollevato il solito cahier des doléances sulla dipendenza energetica da Mosca dalla, un refrain al quale alla fine crede solo la Nuland.

Il vero avversario del mondo occidentale del XXI secolo è infatti la Cina. Gli americani lo hanno capito, e la strategia di Biden sta velocemente indirizzandosi verso questo obbiettivo, a tutti i livelli, politicamente, economicamente e militarmente, nonostante che sia materia domesticamente complessa a causa della numerosa popolazione asiatica.

Dal G7 della Cornovaglia emerge che gli europei sono invece divisi, con in particolare tedeschi e italiani ancora abbagliati delle lusinghe della Via della Seta. Per quando tutti abbiano accolto Biden con grande sollievo, e che il presidente abbia una capacità empatica fuori dal comune (per quello preferisce gli incontri di persona), la scottatura di Trump è ancora troppo viva perché gli Stati Uniti possano utilizzare una moral suasion convincente come ai tempi di Barack Obama.

Dopo la bilaterale, tuttavia, Draghi si è affrettato a negare frizioni con gli Usa su Pechino. Educato negli Stati Uniti (PhD a MIT) e avendo vissuto a Washington come Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, Draghi è sicuramente, assieme a Giuliano Amato (l’altro politico italiano di rilievo ad aver studiato negli Usa) il più transatlantico dei nostri Primi ministri. Nessuna meraviglia quindi, che abbia spedito il filo-cinese Di Maio a Kiev, invece di portarselo in Cornovaglia…

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