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Che le aspettative su Mario Draghi siano eccessive lo dimostra l’esegesi minuziosa applicata al suo discorso omnibus di fiducia alle Camere; ad oggi fonte principale per capirne il pensiero.

In mancanza del protagonismo social del predecessore, il programma di Governo viene interpretato bilanciando ogni singola parola della sua prima uscita in Parlamento.

Il punto più debole del discorso è stato forse nel richiamo alle Nazioni Unite; nobile nelle intenzioni ma piuttosto generico a tal punto da essere sembrato un passaggio di circostanza.

Ogni qual volta nei momenti di crisi la politica estera si è affidata a degli economisti (da Beniamino Andreatta a Lamberto Dini a Mario Monti) il richiamo al multilaterale è stato determinato dalla necessità di anestetizzare problemi di politica interna piuttosto che dalla volontà di un vero rilancio del protagonismo internazionale italiano.

La speranza questa volta è che il curriculum di Draghi gli dia peso a livello internazionale anche se come visto al Consiglio Europeo sui vaccini una cosa è il monito di un Presidente della BCE; altra di un Presidente del Consiglio italiano.

Tornando al discorso di insediamento, non ha sorpreso il poco spazio dato al tema delle migrazioni.

Con una coalizione di Governo cosi ampia e in piena narrativa di “ben-altre-priorità-del-paese” a lasciare perplessi non è lo spazio quanto il contenuto stesso delle dichiarazioni.

Il premier ha ribadito la sacrosanta necessità di garantire sia i diritti dei rifugiati che i rimpatri di quanti non hanno i requisiti per ottenere la protezione internazionale; muovendosi nel solco della cooperazione comunitaria.

Tuttavia, a  mancare è stato un qualsiasi riferimento su come disciplinare i flussi di migrazione regolare.

Stabilizzatasi la pandemia è probabile dunque che continueranno ad arrivare masse di immigrati irregolari che, per non essere immediatamente respinti, si dichiareranno rifugiati.

L’Italia (e l’Europa) garantista li accetterà, sostenendo rilevantissime spese di accoglienza, logistica, commissioni di valutazione delle domande d’asilo, tribunali di secondo grado e quant’altro.

Salvo poi scoprire troppo tardi che la maggioranza degli irregolari non ha i requisiti per lo status di rifugiato ma anche che rimpatriarli a quel punto è nei fatti impossibile.

E’ un circolo vizioso istituzionalizzato da cui l’approccio comunitario non sa come uscire ma nel quale continua a riporre fiducia nonostante i fallimenti accumulati.

Questo avviene mentre la continua instabilità e gli squilibri economico-sociali e demografici strutturali di aree limitrofe dell’UE promettono di mantenere una pressione migratoria per gli anni a venire.

E le reti collaudate di traffickers di esseri umani di (ri)adattare continuamente le rotte dei flussi migratori irregolari.

I paesi di primo ingresso – in particolare Italia e Grecia – sono i più penalizzati nel corto periodo; mentre nel lungo ad andare verso la disintegrazione è lo stesso Sistema Schengen.

Anche se con sporadiche buone intuizioni (come il dialogo con Turchia e Paesi africani nell’ambito del processo di Khartoum) la risposta dell’UE resta nel complesso inadeguata, lasciando agli Stati membri autonomia di azione ma anche i rischi annessi.

Nel concreto a mancare è una risposta che affronti il fenomeno attraverso due direttrici, distinte ma complementari.

In primo luogo, l’Unione deve definire la sua strategia nei confronti della sua frontiera esterna a Sud e Sud Est, riconoscendole lo status di principale area investita dal fenomeno della migrazione di massa. Si tratta di un mix integrato di misure di politica estera e di difesa, di cooperazione e di internazionalizzazione, da intraprendere nei confronti di un vasto territorio geo-politico che si estende dal Bangladesh alla Nigeria.

E’ un’area interessata da pressioni migratorie verso l’Unione, con morfologie diverse che richiedono interventi differenziati.

Una coordinata politica estera e di difesa deve contemplare misure umanitarie (come i cosiddetti programmi di re-insediamento dei rifugiati) e al contempo, laddove la migrazione è di natura economica, una politica di cooperazione ed internazionalizzazione di lungo periodo.

Questo potrà avvenire solo a fronte di una decisa e regolamentata riapertura dei canali regolari di migrazione di manodopera e per motivi di studio, su tutto il territorio dell’Unione.

Il che permetterebbe di trasformare la spesa cattiva (spese per i salvataggi, accoglienza/assistenza/procedure d’asilo – pari solo in Italia a quattro miliardi di euro annui) in spesa buona finalizzata ad investimenti ed occupazione, in parte sul territorio nazionale;  in parte all’estero.

Salvaguardando gli alti principi dell’istituto d’asilo che verrebbe così riservato solo a coloro che sono veramente perseguitati.

In secondo luogo, è richiesta una coraggiosa rivoluzione culturale nella promozione di vere politiche di integrazione, oggi ancora ferme alla dimensione retorica.

Il costo maggiore dell’ottusità burocratica della accoglienza-precaria-permanente applicata ai flussi migratori irregolari ricade sulla comunità di oltre 5,5 milioni di cittadini stranieri che già vive, produce e lavora in Italia, contribuendo in maniera fattiva alla tenuta del sistema Paese.

Senza poter beneficiare di alcun intervento di integrazione, a partire dal vedersi riconosciuta una rappresentanza politica.

Nessuno si scandalizza che l’ 8,8% della popolazione nazionale abbia ad oggi in Parlamento un solo rappresentante di origine straniera (per inciso, militante nelle file della Lega).

In questo vuoto politico il Paese perde al contempo una possibile soluzione al problema ed una risorsa per il suo sviluppo.

Svariati studi dimostrano che i cittadini più acriticamente attaccati ad uno Stato-Nazione sono quelli naturalizzati dopo esservi approdati da una ex-patria, lasciata alle spalle per scelta o necessità.

Circostanza, nel suo piccolo, dimostrata dal caso personale dei due autori di questo articolo.

Marina Militare, MIGRANTI

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