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Pubblicamente qualche volta, sotto traccia più spesso, a destra ferve il dibattito sulla scelta della Lega di aderire al governo Draghi e su quella speculare di Fratelli d’Italia di starsene fuori. Che la competizione fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini sia nei fatti, è un dato evidente e non da oggi.

Ma che essa generi divisioni insanabili fra i due principali partiti, e poi all’interno di ognuno di essi (soprattutto della Lega stando a quanto dice la stampa avversaria), è francamente esagerato. Il dibattito dovrebbe essere il sale della democrazia, e quindi un elemento da apprezzare anche quando avviene fra amici e alleati, e persino fra alleati in concorrenza di consensi fra loro.

Positiva è perciò da considerarsi la discussione avviata su Libero da Vittorio Feltri, che la scelta della Lega ha avversato sin dal primo momento, e continuata poi con gli interventi dello stesso Salvini e di Paolo Becchi. Le tesi di quest’ultimo, in particolare, meritano particolare attenzione perché egli vede l’ingresso nella maggioranza di governo della Lega come una sorta di investimento sul futuro: e quindi da misurarsi in questa ottica e non in quella di breve periodo che porta oggi, come era immaginabile, ad un aumento dei consensi nei sondaggi non per Salvini ma per quello che è di fatto l’unico partito all’opposizione, i Fratelli della Meloni.

Becchi ha sicuramente ragione ma è, a mio avviso, ingeneroso quando dice che il leader della Lega non abbia “una visione del Paese” perché “è rimasto mentalmente fermo al 2018”. Il fatto è che quella “visione” egli non ce l’ha ancora del tutto compiuta perché il partito è cresciuto troppo in fretta per avergliela potuta dare. Che la stia cercando, e anche delineando, mi sembra invece alquanto evidente.

E proprio l’incalzare il governo su fatti concreti (le “riaperture” in sicurezza, la vaccinazione, l’attenzione a imprese e partite Iva, la difesa della proprietà), quelli che piacciono a Feltri, ne è testimonianza: essi non sono scelti a casaccio, in risposta casomai solo ai bisogni evidenziati dai sondaggi; essi individuano, piuttosto, ben precisi ceti di riferimento e rispondono a una visione produttivistica e non assistenzialistica del futuro dell’Italia.

Non sono nemmeno d’accordo con Becchi quando dice che non era dato immaginare, all’atto di ingresso nella maggioranza, che Draghi fosse così poco “decisionista” e così in continuità con il governo precedente. Il che è tutto ancora da vedere. L’amico professore si dimentica infatti che questo è un governo di coalizione larga, ove tutti devono rinunciare a qualcosa e le cui decisioni spesso contrastano con le idee ora dell’uno e ora dell’altro.

Certo, se il pendolo battesse da una sola parte, le cose cambierebbero e la Lega sarebbe legittimata anche a valutare l’ipotesi (comunque traumatica) di fuoriuscita. Soprattutto perché verrebbe meno il “patto originario” su cui l’esecutivo è nato: il governo con tutti dentro è sorto per iniziativa del presidente della Repubblica, senza veti, per mettere in salvo economicamente il Paese e realizzare riforme di struttura che vanno oltre le appartenenze specifiche (amministrazione, giustizia, burocrazia).

Che ius soli, legalizzazione delle droghe, ecc., vengano buttate dentro, è un tentativo politico che ovviamente Draghi, indipendentemente dalle sue convinzioni personali, dovrà fermare. Un elemento da considerare è che la scelta di Salvini ha generato più contrarietà negli intellettuali e nella stampa d’area che non fra militanti e simpatizzanti. Il che non deve meravigliare, se è vero che pertiene sempre all’intellettuale una quota di idealità che (tranne in pochi casi) lo rende inadatto alla politica politicienne.

E, in effetti, mai come in questo caso, in un’ottica tutta politica, e per altro verso istituzionale, la scelta della Lega va letta. E va interpretata. Il governo Draghi favorisce poi anche una ristrutturazione dei partiti, non solo quelli di destra, dando loro un respiro che le responsabilità dirette e quotidiane non davano. Per la Lega questo non può significare altro che, in un’ottica di distinzione e complementarietà con Fratelli d’Italia, occupare quel vasto campo liberale che un tempo era di Forza Italia.

Ciò che è ora da auspicare da parte del partito di Salvini è una netta presa di posizione in senso atlantista, europeista e occidentale. Ma con il corollario che l’europeismo che si cerca è diverso da quello poco liberale e poco attento ai valori della tradizione cristiana che informa oggi di sé l’Unione. Gli stessi rapporti con Orban e Macowiecki dovrebbero essere impostati su questo fondamento: essi, infatti, se sono utili per avere una sponda contro il “politicamente corretto” del “dirittismo” che ha preso piede a Bruxelles; d’altro canto è necessario che esplicitino con chiarezza l’adesione ai principi liberali di separazione dei poteri, indipendenza della giustizia, pluralismo e libertà nell’informazione e nella cultura (che, a quanto sembra, nei suddetti Paesi sono alquanto sacrificati).

Ovviamente, è tutto in progress. Né si può dire a priori che il tentativo di una Lega “liberale” sarà vincente e convincente. A me sembra che però tutto converga in questa direzione per il partito di Salvini: l’interesse pratico, l’importanza di avere una “visione”, la necessità di rientrare da protagonista nel gioco politico.

Per non dire, dal punto di vista generale, l’importanza per il funzionamento futuro della nostra democrazia di avere campi politici alternativi per interessi e ideali, in competizione fra loro ma anche legittimati (e reciprocamente legittimatesi) a governare Su quest’ultimo punto c’è ancora molto da fare, come era prevedibile. Ma solo un governo come quello di Draghi può favorire una tale evoluzione in positivo del nostro sistema politico.

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